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Cercasi leader disperatamente



Mentre si avanza rapidi verso le consultazioni elettorali del 25 settembre, la proposta politica è al palo. Latitano i «numeri 1» che si impongano come capisaldi di coalizione. Ma la chiarezza non è di questo Paese. Ed è tutto un beccarsi, proporre soluzioni astruse, esibirsi in balletti di alleanze, influenze e ruoli. Forse si può presagire già un futuro schricchiolante.

Va bene, tutti al voto. Adesso però mettetevi nei panni dello stremato elettore medio. Dopo un abbondante decennio di premier piovuti dal cielo, può finalmente dire la sua. Il tapino, dunque, chi può indicare per Palazzo Chigi? L’ex premier Mario Draghi, candidato a sua insaputa da centrosinistra e centrino? Indisponibile: al momento, preferisce fare il Cincinnato. Il segretario del Pd, Enrico Letta, allora? Traccheggia: non vorrebbe bruciarsi, sapete. Il ribaldo, Carlo Calenda, quindi? Stravagante: ha appena il cinque per cento. La regina del centrodestra, Giorgia Meloni? Acquattata: fino al giorno del giudizio, per non scontentare gli alleati. E l’inossidabile Giuseppe Conte? Audace: ha cambiato più posizioni che pochette.

«Hasta la vista, baby!». Boris Johnson s’è congedato dal parlamento inglese con una spettacolare citazione da Terminator. «Ci vediamo presto, piccola!», promette il premier inglese. In Italia, invece, non rimane che parafrasare Indiana Jones: «Alla ricerca del leader perduto». Il mondo, negli ultimi cinque anni, è stato stravolto: dalla pandemia alla guerra in Ucraina. Eppure, spacciando immobilità per coerenza, i programmi sono una scopiazzatura di quelli del 2018. Per non parlare delle coalizioni: più magmatiche e rissose che mai. Mentre fioriscono le ipotesi su chi potrebbe guidare il Paese. Grazie anche a una legge elettorale che i nostri impavidi non hanno voluto mai cambiare.

Oddio, arrivano le elezioni e non hanno nulla da mettersi. Cercasi leader disperatamente. Nonostante ben quattro ex premier in campo: oltre a Enrichetto e Giuseppi, corrono anche Silvio Berlusconi e Matteo Renzi. Ci sarebbe pure Draghi: a perfetta esemplificazione del vuoto pneumatico, l’ex premier è il vessillo dei nostalgici progressisti. Letta, per esempio, continua a onorare il suo azzeccato soprannome: «Nipotissimo», inteso dello zio Gianni, già felpata eminenza del berlusconismo. Ecco, a differenza dei suoi predecessori, Letta a Palazzo Chigi non si candida nemmeno. Sarà «il front runner», al massimo. L’allenatore che, nonostante lo sguardo allampanato, invita a tirare fuori «gli occhi della tigre», come quelli di Rocky Balboa. Anche se poi, in un sussulto impressionista, sogna un Pd «come un quadro di Van Gogh». Che si amputò un orecchio con un rasoio quando seppe che il fratello stava per sposarsi.

Letta, invece, è lucidissimo. Altroché. Torni pure al potere l’ex presidente della Bce. Il capo dell’opposizione mica può sporcarsi le mani! Meglio agitare il cartonato di SuperMario. E poi, informa, «il tema non è in agenda». Ovvio: c’è ben altro a cui pensare. Mancano poche settimane alle elezioni. Troppo presto per svelare ai connazionali chi salirà a Palazzo Chigi. Quisquilie. «Non siamo la destra che litiga sugli incarichi prima ancora di fare le liste». Certo, loro volano altissimo: «Siamo impegnati a testa bassa a parlare agli italiani e ce la metteremo tutta per convincerli a scegliere la nostra proposta politica». Evitando però, con indubbio tatto, di «rompere i coglioni» sotto l’ombrellone.

Già, pensa invece a quegli sfigati del mondo occidentale… Si affannano a indicare i governanti in lizza, pensando irragionevolmente che possa chiarire le idee ai cittadini. Come quegli allocchi dei francesi, corsi alle urne sicuri che il leader del partito più votato sarebbe poi finito all’Eliseo. Scelta poi ricaduta sull’uscente: Emmanuel Macron. Una dittatura, praticamente. Vuoi mettere con le fumisterie italiche? Sei premier in nove anni e mezzo: imbattibile record delle democrazie occidentali.

Al pari dei Soldati di Ungaretti, «si sta come d’autunno sugli alberi le foglie». Il previdente Letta così non si scompone. Tanta fatica, ma la vita è caduca… Prima le nobilissime idee quindi, specialità della politica tricolore. E poi le poltrone, da cui invece i nostri francescanamente rifuggono. Mentre quei testoni degli Italiani continuano a chiedere chiarezza. Anche Carlo Calenda, fondatore di Azione e demiurgo del nascente centrino, premette: «Spero ci siano gli estremi per riportare Draghi al governo». Salvo poi annunciare: qualora l’ex premier non fosse disponibile, il Churchill dei Parioli, con traboccante autostima, è pronto a immolarsi. Nel mucchio selvaggio resta Renzi, trattato però come un derelitto. Il suo sontuoso due per cento non ingolosisce.

Insomma, un appestato. Nessuno se lo piglia. Destino che lo accomuna a un altro ex premier in disarmo, da lui odiatissimo: Conte. Ovvero, il primo responsabile della crisi di luglio. Il giurista di Volturara Appula si prepara all’ultimo travestimento: sarà il Jean-Luc Mélenchon italiano. «Provinciale!» rintuzza Letta, dopo averlo issato a «interlocutore privilegiato». Ma Giuseppòn non se ne cura. Spera di emulare le imprese del leader transalpino dell’estrema sinistra. Da aspirante moroteo a bertinottiano di risulta: a fianco degli ultimi, per gli ultimi. A dispetto del suo passato da avvocato dei potentoni, si prepara a diventare il difensore degli oppressi: «Contro quelli dei salotti buoni e della Ztl». Letta e Calenda, quindi. Mentre lui, iperbolico, «punta alla guida del Paese».

Già, Giuseppòn Mélenchon. Solo che il francese ha preso il 22 per cento, terremotando la politica nazionale. Giuseppi invece dovrà farà testimonianza. Bene che vada, raccoglierà una cinquantina di seggi. Ma non demorde. Medita di arruolare un vecchio tele tribuno come Michele Santoro. E ovviamente il Dibba. Pensare che, appena due anni fa, era un riverito presidente del Consiglio... Sobillato da Rocco Casalino, il portavoce pronto a fare il senatore, si vantava di essere il più amato di sempre. Mentre adesso, per evitare lo sprofondo, non gli resta che sperare nel ritorno di un residuato: l’eterno dissidente Alessandro Di Battista, il Che Guevara di Roma Nord.

Ex alleati, possibili alleati, mai alleati. All’accozzaglia, puntellata da reprobi del berlusconismo come le ex ministre Mariastella Gelmini e Mara Carfagna, si oppone il centrodestra, incautamente convinto di avere la vittoria in saccoccia. Ma almeno la coalizione favorita ha un leader? Macché. Gli ansimanti azzurri sono uniti come un sol uomo: il Cavaliere, appunto. Che informa: «Il tema non mi appassiona». Quel che conta è il programma: dal milione di alberi ai mille euro di pensione minima. Mentre la Lega risventola gli eterni vessilli: flat tax, zero clandestini e pace fiscale.

Va bene, ma chi è il leader? Lo sapremo a urne sigillate. Chi prende un voto in più, indica il presidente del Consiglio. Tutto bene, dunque? Sì, qualora Fratelli d’Italia, come probabile, supererà il 25 per cento. A quel punto, Meloni si autoproclamerà prima premier donna della storia patria. Se invece le distanze saranno più risicate, Matteo e Silvio potrebbero far scattare il trappolone, unendo le forze in Parlamento. Resta comunque da scrivere il programma comune. E vanno ancora decise le candidature alle regionali. C’è sempre tempo per replicare il tafazziano «modello Verona», già snocciolato alle ultime amministrative: tutti contro tutti, trionfa il centrosinistra.

Ma nemmeno eventuali saltafossi potrebbero bastare. Fratelli d’Italia, almeno nei sondaggi, ha più voti dei due alleati messi insieme. Meloni sa di avere la vittoria in tasca. Non è mai stata al governo. Può rivendicare coerenza. Gli attacchi sulla deriva estremista, orchestrati dall’accecata Repubblica, sono inconsistenti. Certo, resta il dubbio: il modello a cui ispirarsi sarà la leggendaria conservatrice inglese Margaret Thatcher o l’inscalfibile sovranista ungherese Viktor Orbán? Da mesi, Meloni prepara la sua ascesa. Ostenta moderatismo, atlantismo e produttivismo. Non ha sbagliato una mossa. L’unico recente inciampo rimane l’indiavolato comizio a Marbella, ospite di Vox, ultradestra spagnola. Ha fatto ammenda. Adesso tenterà di tranquillizzare i più diffidenti nell’Ue. E un aiutino potrebbe arrivare pure da Draghi, l’arcieuropeo per eccellenza, vista la reciproca stima.

Nella convention milanese di maggio, Meloni ha presentato perfino i suoi ministri in pectore: dall’ex ministro forzista Giulio Tremonti all’ex magistrato Carlo Nordio. Una squadra di eminenti ultrasettantenni (74 il primo, 75 il secondo) che mirano a compensare gioventù, audacia e inesperienza. Ma Silvio e Matteo, arrivati al dunque, potrebbero comunque spingere per un rassicurante tecnico d’area al comando. Nel caso di risicata vittoria del centrodestra, per esempio. O di ingovernabile crisi finanziaria. A quel punto, la «sorella d’Italia» potrebbe diventare la «madre nobile». Insomma, largo all’ennesimo premier non eletto dal popolo. Altro che Terminator o Indiana Jones... Sarebbe il solito film horror: A volte ritornano.

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