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Invece di cancellarlo, Evola va conosciuto

Il filosofo che aderì al fascismo, prima dell’avvento al Mart di Rovereto. Si è scatenata una polemica che parte da un pregiudizio, ma non entra nello specifico artistico. L’ideatore di questa esposizione, il critico

Inizierei da Tresigallo. Bombardamento sistematico della città voluta dal gerarca Edmondo Rossoni. Lo scrittore Diego Marani inizierà a strillare. Poi Sabaudia. Cosa importa se Pasolini l’aveva scelta come spazio della mente per le ultime fotografie con Dino Pedriali? E perché non abbattere il palazzo della Civiltà italiana all’Eur? D’altra parte Mario Draghi ha militarizzato l’Italia contro Vladimir Putin...

Niente di più facile che usare le armi per cancellare le intollerabili reliquie del fascismo. C’è poi Asmara. Qualcuno invocherà l’Unesco che ha dichiarato Patrimonio dell’umanità la città fascista in Eritrea. Un evidente errore. A che punto siamo? Si potrebbe dire di essere tornati indietro, a leggere le considerazioni di Mirella Serri su La Stampa dei giorni scorsi - copiate peraltro da un altro quotidiano, Domani, sulla mostra di Julius Evola al Mart di Rovereto. Se dovessimo usare il suo metodo, il giudizio su un’opera, su un dipinto come su un libro, dovrebbe essere preceduto da un processo alle intenzioni, chiedendo all’artista di rispondere di tutto ciò che ha fatto in vita. La Serri mi rimprovera di non aver avvertito i visitatori che un pittore che dipinge opere astratte tra il 1915 e il 1921, prima dell’inizio del Fascismo, nel 1937 ha introdotto l’edizione italiana de I protocolli dei savi anziani di Sion, che pur sapeva essere falsi.

Tutti conoscono la visione antimoderna di Evola, e l’hanno, anche motivatamente, avversata. Prima di me Vanni Scheiwiller ed Enrico Crispolti si erano occupati di Evola pittore, senza pre o post-occuparsi di lui pensatore. Oltretutto non c’è alcuna interferenza tra quei dipinti, concepiti nello spirito dell’avanguardia dadaista, e il pensiero successivo di Evola. Tutto questo avviene, come è ben chiarito nel catalogo, con la presa di coscienza dei limiti del Futurismo che sarebbe anch’esso sfociato, senza turbare la Serri, nel Fascismo. Evola scrive: «Non tardai però a riconoscere che, a parte il lato rivoluzionario, l’orientamento del futurismo si accordava assai poco con le mie inclinazioni. In esso mi infastidiva il sensualismo, la mancanza di interiorità, tutto il lato chiassoso e esibizionistico, una grezza esaltazione della vita e dell’istinto [...]».

In quegli anni Evola fu il più significativo esponente del Dadaismo in Italia. E a Tristan Tzara scrisse: «Aderisco con entusiasmo al vostro movimento al quale senza saperlo mi ero avvicinato già da tempo in tutte le mie opere; e che dichiaro essere il più importante e il più profondamente originale che sia comparso fino a oggi nell’arte». Nel marzo del 1921 sarà ancora più esplicito: «Non avevo mai trovato, in tutta la mia esperienza culturale, cose che sentissi come le vostre, e vi sarò sempre grato per il senso di interiorità e di astrazione che molte delle vostre poesie hanno alimentato in me».

Che senso ha allora, come fa la Serri, fuori dell’ambito della produzione artistica di Evola, fare riferimento al tempo successivo, quando Evola sembrò considerare Tzara il «limite estremo della degradazione della cosiddetta arte d’avanguardia»? Non ci sono limiti all’insensatezza, se la Serri arriva a rimproverare Evola di essere «un ispiratore dei folli convincimenti imperiali dello zar Putin». Non ci si vuole credere. Si rimedita con rimpianto all’equilibrio di Claudio Bruni che, andando a visitare a casa l’Evola diffidente, nel 1960, poteva scrivere senza pregiudizi: «Mi apparve subito evidente che il momento dell’Evola pittore era di altissima importanza, sia per la cultura italiana che per un più ampio discorso a livello europeo».

Oggi è tornato il tempo del processo: la Norimberga della storia dell’arte. Sembrava superata dopo i processi a Nietzsche, a Céline, a Pound, ma non sono bastati Pasolini e tutta la cultura francese a spegnere l’ansia punitiva dei vendicatori, nonostante il libro rivelatore di Guido Andrea Pantasso Il filosofo in prigione. Documenti sul processo a Julius Evola. Occorre sempre ricominciare. E allora, se il peccato originale, benché postumo, è il Fascismo che l’arte non può riscattare, perché non procedere alla distruzione delle città di fondazione che ho ricordato in apertura del mio articolo?

Si avanzi con le ruspe su Latina, e non si abbia pietà per Diego Marani che espone a Parigi, nell’Istituto di Cultura, le fotografie della sua amata Tresigallo che addirittura addita a esempio, sfidando l’ira della Serri: «Visitando Tresigallo salta all’occhio quanto dietro la pietra ci fosse un’idea, seppure liberticida e oppressiva. Il regime fascista sapeva abilmente sviluppare la sua narrazione anche con il tracciato delle strade e con la forma dei palazzi delle sue città. Troppo spesso invece vediamo i quartieri moderni delle nostre città, costruiti in tempi di libertà e democrazia crescere nel disordine, senza carattere né stile, senza esprimere nessuna visione di società, senza raccontare nulla di quei valori che invece dovrebbero ispirarla e anzi spesso degenerando nel brutto che presto si trasforma in degrado».

Che l’evidenza, cara a Marani, non basti è dimostrato dall’attacco concentrico che viene proprio sul fronte del giudizio estetico. Occorre cioè smontare anche la evidente dignità formale della rara e intensa produzione pittorica di Evola che testimonia uno dei più interessanti fenomeni dell’astrattismo italiano. Si applicano a questa impresa due Carneadi con argomenti improbabili che non ammettono il principio di contraddizione. Scrive Elio Cappuccio su Domani, come se fosse una colpa: «La tensione spirituale di Kandinsky come di Mondrian, solo per citare due esempi, non conduceva però a un rifiuto radicale della modernità, come accade a Evola».

E allora? Se ne deduce che una posizione teorica, per altro successiva alla esecuzione dei dipinti, impedisce a Evola di aver testimoniato quel linguaggio. Non si argomenta: si accusa. E si giudicano i dipinti del 1915-1921 con la prefazione ai I protocolli dei savi anziani di Sion del ’37. In parte, la Serri, si affida, pressoché copiandoli, a questi deliri critici, accogliendo anche la suggestione grottesca di ritenere Evola un riferimento per il dispotismo di Putin. Stendendo un velo pietoso, la Serri evita di coinvolgere in questo assurdo sillogismo René Guénon. Ma se Cappuccio non dà argomenti, ci pensa Demetrio Paparoni su un giornale che esce sempre il giorno dopo. Paparoni preferisce scherzare, e invece di prendere atto di quello che vede grazie alla mostra del Mart, elabora curiose teorie a sostegno di una inconsistente premessa: «Non amo affatto Evola. Trovo le cose che ha scritto indigeribili, ma i quadri sino a quel momento li avevo visti solo in fotografia. E la fotografia, si sa, inganna: rimpicciolendo l’immagine corregge le indecisioni della mano, non fa ben percepire l’impasto e la consistenza della materia e comunque non consente di dare un giudizio corretto in quanto favorisce i pittori meno dotati e penalizza i più bravi».

«Opinioni» direbbe il foscoliano Didimo Chierico, sconosciuto ai due improvvisati critici d’arte; ma Demetrio, dopo la premessa sull’inganno della fotografia, ci dona altre perle evidentemente contraddette, non dalle parole ma dai quadri di Evola, come vide, con equilibrio, Enrico Crispolti: «Se si guardano le date dei dipinti, appare chiaro che Evola non ha dato nessun contributo innovativo al modernismo, perché ha sempre dipinto guardando i futuristi senza nemmeno arrivare a sfiorare la grandezza di Balla, Boccioni o Severini». Cieco, è sempre stato cieco Paparoni, che ovviamente non può capire miracoli di pittura come Alle Cascine dei fratelli Bueno e l’Autoritratto di Pietro Annigoni giudicati con i soliti pregiudizi, che contraddicono le sue stesse premesse. Parole in libertà, dopo aver detto: «Molti virtuosi non sono buoni artisti, così come artisti privi di grandi abilità tecniche possono egualmente riuscire a dare una forma estetica compiuta al contenuto che vogliono esprimere. Non vale però per Evola: «Le pennellate sono goffe, le linee incerte, la definizione dei punti di contatto tra le diverse masse pittoriche testimonia scarsa padronanza tecnica. A farla breve, come pittore Evola non spicca né per abilità tecnica né per originalità».

Demetrio ci risparmia Putin, ma ci spiega, ignorando Scheiwiller, Crispolti, Bruni, Drudi Gambillo, Giovanni Lista, Mario Verdone, Claudia Salaris, Fabio Benzi (che possiede un dipinto di Evola), Maurizio Fagiolo Dell’Arco, perché abbiamo fatto la mostra di Evola. Naturalmente per ragioni ideologiche. Perché siamo nostalgici del Fascismo attraverso opere di un periodo in cui il Fascismo non c’era: «Non sorprende che, in un periodo storico segnato da sovranismo e derive autoritarie, si tenti di valorizzare la figura di Evola pittore». Che non c’entra niente con il pensatore. E a noi non sorprende che, con critici così, la conoscenza dell’arte possa soltanto regredire in una visione penosa e giustizialista. Poveretti, hanno gridato un giorno.

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