Quando i volontari delle Unità di Difesa Territoriale arrivano nel suo ufficio, Iryna Sergeva li guarda e pensa: non sanno dove sono arrivati. Sono studenti, ingegneri, cuochi, operai. O meglio lo erano. Oggi sono soldati. Iryna prestava servizio a Kiev fino a due mesi fa. Poi l’unità di cui fa parte è stata spostata a Kharkiv e lei vive qui da allora, in una base a Nord della città.
Poche settimane fa un nuovo arrivato, un giovane soldato di 26 anni ha bussato alla porta del suo ufficio, voleva presentarsi, Iryna scriveva i suoi appunti e lui pensava che fosse una psicologa, un’assistente delle truppe. Iryna ha scosso la testa e ha detto: «No, io mi prendo cura dei morti».
Lui si è allontanato, ha camminato un po’ lungo il recinto della base, poi è tornato indietro e le ha detto «se tocca a me, voglio essere sepolto con l'uniforme multicam». Lei lo ha appuntato sul taccuino, insieme al numero di telefono di sua madre. Pochi giorni dopo essere partito per la linea del fronte il giovane è morto.
Quando le truppe hanno portato indietro il corpo Iryna è andata all’obitorio di Kharkiv e lo ha identificato. Il volto era stato ricucito, una gamba e una parte del busto tranciati di netto.
Si è fermata sotto la tenda all’esterno dell’ospedale militare, ha guardato i sacchi bianchi, le bare, il corpo e l’uniforme multicam che gli aveva promesso, ha cercato di ricordare l’espressione che aveva mentre le lasciava indicazioni sulle parole da usare con sua madre in caso di morte, non la vedeva da un anno, si era raccomandato di dirle che non aveva sofferto.
Si è fermata così, nella stessa posizione, in piedi davanti ai sacchi bianchi e alle bare, anche ieri mattina. L’unità è riuscita a recuperare due corpi, lei ha dato loro un nome e si è assicurata che venissero caricati sul camion frigorifero che li avrebbe portati a Kiev.
Attaccato al portellone posteriore un cartello con scritto «200». Cargo 200 nel codice militare è il mezzo che trasporta i cadaveri dal campo di battaglia, un’espressione usata in Unione Sovietica e negli Stati post sovietici per identificare le vittime. Significa che i soldati tornano a casa in casse di zinco e significa perdite per le truppe che ancora sono al fronte a combattere.
Iryna è l’addetta del Cargo 200.
Mentre era a Kiev, studiando le procedure per il recupero dei corpi, pensava che sarebbe stato semplice, più semplice che combattere. Poi è arrivata a Kharkiv, ha cominciato a dare un nome ai corpi, a vivere ogni giorno tra i morti, e il suo volto in due mesi è cambiato.
I lineamenti si sono irrigiditi, l’espressione del volto si è fatta più severa, i suoi occhi raccontano una solitudine profonda. Presta servizio dal 2016 ma la guerra che lei e i suoi hanno combattuto negli anni passati non somiglia a quella di oggi. Nelle trincee di oggi ci si ripara dalla guerra a distanza, con i missili che piovono sulla testa e i soldati ucraini che sono sul fronte a Nord di Kharkiv sanno che possono sparare quindici munizioni al giorno mentre dall’altra parte ne possono arrivare dieci volte tante.
Molti dei centomila civili volontari arruolati nella difesa territoriale dallo scorso febbraio la guerra l’avevano vista solo nei film. Pensavano che al fronte si sparasse, invece dei fucili che hanno in spalla non sanno che farsene perché quello che può ucciderli arriva dal cielo e non possono prevedere quando il fischio che ha ucciso il vicino toccherà a loro. Questa è oggi la prima linea: una vita in trincea da prima guerra mondiale con un nemico invisibile da cui non puoi e non sai difenderti.
Così quando i soldati tornano alla base portano indietro un trauma difficile da gestire. Come è difficile da gestire quello dei comandanti, soldati esperti, responsabili di giovani che fanno quello che gli viene ordinato, comandanti che spesso sanno che stanno mandando giovani uomini, giovani volontari, a morire.
Da quando si prende cura dei morti, Iryna riesce sempre meno a parlare coi vivi. Preferisce non tornare a Kiev, non prendersi dei giorni di riposo nelle zone del Paese che sono relativamente sicure perché l’unica volta che l’ha fatto è crollata. Il trauma, dice, emerge nel ritorno alla normalità. Perciò preferisce restare a Kharkiv.
Talvolta i soldati di stanza nella capitale la chiamano lamentandosi perché i cadaveri non tornano a casa. «Pensano che siamo pigri o peggio codardi», così lei cerca di spiegare che recuperare due corpi sul campo rischia di mettere in pericolo altre cinque persone, un rischio che le unità oggi non possono correre perciò sono costrette a lasciarli lì, sapendo cosa comporta.
Lasciare il corpo di un soldato sul campo di battaglia significa che chi è nella base aspettando di andare al fronte sa che anche il suo corpo rischia di restare lì, magari a pezzi, senza una sepoltura, senza che i parenti possano piangerlo. È per questo che quando i cadaveri riescono a tornare indietro, e arrivano all’obitorio, viene dedicata loro una cerimonia di commiato.
Serve a ricordare a chi sta per partire che non verrà dimenticato, che l’esercito si prende cura dei morti e prendendosi cura dei morti si prende cura dei vivi. Cioè della memoria.
Ieri alle due del pomeriggio il cargo 200 con i due corpi recuperati dall’unità di Iryna è arrivato in una base a Nord di Kharkiv. Dietro le bare la bandiera ucraina, nel piazzale un centinaio di soldati, ognuno di loro con un garofano rosso in mano per rendere omaggio ai caduti. In piedi, di fronte a tutti, il comandante: «Questi corpi non sono l’immagine di un fallimento ma la prova del nostro sacrificio, la ragione per cui siete qui. Che non è la vendetta ma la difesa della nostra nazione».
I soldati hanno sfilato uno dopo l’altro, e uno dopo l’altro si sono inginocchiati. Qualcuno ha pianto. Altri hanno esitato qualche secondo davanti le bare pensando, forse, di poter essere i prossimi.
Perché il corpo di uno è il corpo di tutti, perché quei corpi hanno anche un altro significato: ricordare che la sopravvivenza del singolo dipende anche dall’unità del gruppo. Che le uniformi che indossano li trasformano in un corpo collettivo. Il corpo fisico appartiene e apparterrà alle famiglie, il corpo pubblico resterà simbolo delle ragioni per cui ha combattuto.
Il comandante si è inginocchiato per ultimo. Ha accompagnato le bare nel camion, ha chiuso il portellone, ha detto: riportateli a casa. Serve a questo il tributo emotivo a chi resta ucciso: seppellire i morti, salutarli, mantiene vivo l’umano, perché il commiato va oltre la perdita della vita, supera il tempo e permette a chi resta di soffrire, affrontare la realtà della guerra e, forse, andare avanti.
È la ragione per cui le famiglie vogliono essere sicure che i corpi saranno rispettati, trattati dignitosamente, la ragione per cui è così importante avere indietro i corpi dei caduti, perché non poter dire addio alle persone amate aggiunge strazio allo strazio, per questo eserciti fanno di tutto per restituire i resti dei soldati caduti alle loro famiglie, anche se ciò richiede decenni.
Iryna non vede i figli da quattro mesi. Sono in Germania, in salvo, con sua sorella. Li chiama il meno possibile, preferisce non vedere i loro video e le fotografie perché non sa dove sistemare il dolore della distanza nella disciplina che si è imposta per sopportare il ruolo che ricopre.
Suo marito è al fronte, i bambini sono lontani e lei prova a non ricordare di essere madre. Mentre il cargo 200 si allontana in direzione di Kiev. Iryna mette le cuffie e accende la musica, è il suo modo di rimanere sola senza restare in silenzio.
Il silenzio, dice, non riesce a gestirlo. Il silenzio serve a guardare in faccia una pena che oggi lei non può permettersi di affrontare. Così torna in ufficio e continua a prendere appunti sulle salme a cui dare un nome, un cognome e una sepoltura.