La spirale del caos monta, e l’inopinata crisi balneare si avvita sempre di più. Lasciando intravedere chiaramente solo una cosa (e un responsabile): il riflesso pavloviano del populismo parolaio e quello della campagna elettorale permanente che si sono impossessati di un ex tecnico diventato politico, e dimentico di quel senso della misura e di quel primato dei doveri istituzionali che dovrebbero invece essere ben presenti a un ex premier. Se Parigi val bene una messa, per Giuseppe Conte e i suoi un termovalorizzatore a Roma (che sta annegando nei rifiuti, soprattutto per l’eredità di scelte sbagliate o mancate delle giunte precedenti) vale la caduta del governo Draghi. Chissà… Naturalmente, si tratta esclusivamente del casus belli e della foglia di fico per coprire la voglia matta della maggior parte dei notabili del Movimento 5 Stelle di rompere con il presidente del Consiglio che, nelle narrazioni complottistiche a uso e consumo di militanti e pasdaran, viene accusato del cosiddetto «conticidio» e di avere orchestrato la scissione dei dimaiani (e chi più ne ha più ne metta...). Proprio a partire dal rifiuto dell’inceneritore – ennesima conferma del dna dei grillini come portatori (in)sani di sindrome Nimby –, e dopo avere recapito al premier il suo diktat-cahier de doléances per punti, Conte ha invocato la «linearità» e «coerenza» delle decisioni del Movimento. Parole che appaiono piuttosto stridenti e sloganistiche anche alla luce dell’essere stata interrottamente la principale forza di governo di tutti gli esecutivi di questa legislatura; e, quindi, più che lamentazioni avrebbe dovuto produrre azioni “in prima persona” per risolvere i problemi (in buona parte seri e reali) indicati un po’ a mo’ di lista della spesa nel documento. L’indecisionismo è ampiamente rappresentato in seno al M5S e, soprattutto, costituisce un tratto caratterizzante dell’ex premier Conte tanto da averlo indotto in queste giornate drammatiche a cambiare molte volte posizione rispetto al convincimento tattico di partenza di poter alzare il peso contrattuale del M5S attraverso i veti e una sorta di «Vietnam parlamentare» senza, però, arrivare davvero all’uscita dal governo. Il «CamaleConte», giustappunto, che ha trovato in questo atteggiamento altalenante una paradossale convergenza con Beppe Grillo (con cui risulta da tempo in conflitto), capace anch’egli di sostenere tutto e il suo contrario. Il «grillocontismo» insomma, mix di avventurismo e funambolismo senza rete, animato dalla persuasione di non dover pagare mai pegno. Così, il presidente pentastellato ha pensato di rilanciare la sua malferma leadership sul turbolento partito-non partito giocando di sponda tra i minoritari (e tenui) governisti e i falchi maggioritari, per appoggiare infine le istanze di questi ultimi. Di qui, l’opzione per quella che si potrebbe denominare la «Piattaforma Papeete 2.0» (con Matteo Salvini, non per caso, osservatore “sottocoperta” e assai interessato). La perdita dell’egemonia numerica alle Camere e il timore di essere spinto verso l’irrilevanza dopo la nascita di Insieme per il futuro hanno fatto precipitare le cose. In una direzione, però, un po’ diversa da quella pianificata dal cerchio magico contiano – a riprova, due ex portavoce hanno lasciato il M5S in questi giorni e, nel caso di ripartenza dell’esecutivo, si prevedono ulteriori esodi. Conte e l’ala movimentista hanno scelto di scommettere su un tentativo di cosmesi-maquillage, dandosi una spolverata di antagonismo delle origini e puntando sulla volubilità e la memoria a breve termine di certi settori dell’elettorato. Un’«operazione politica speciale» (come è stata sarcasticamente ribattezzata in vari meme sulla rete) che dà l’impressione, tuttavia, di sfidare esageratamente le leggi della «fisica politica». Non esistono esempi di formazioni che siano state in grado di attraversare la totalità dello spettro degli orientamenti, oscillando, senza soluzione di continuità, da un polo all’altro del pendolo del mercato politico senza intaccare la propria “credibilità”, specie se questa insiste sul sempre più affollato segmento antisistemico. Con la specifica rilevante che Conte descamisado in pochette non ha propriamente le physique du rôle del “neo-rivoluzionario”. Mentre ci sono leadership (soprattutto extraparlamentari) più seducenti per la pancia grillina e in grado di incarnare o rideclinare la narrazione “contro” delle radici, a partire ovviamente dallo scalpitante Alessandro Di Battista (senza dimenticare la galassia del «neneismo»). In buona sostanza, la «plausibilità antisistemica» non è rigenerabile nello spazio di pochi mesi, anche se lo strappo contiano può tamponare qualcos(in)a sotto il profilo dell’emorragia di voti.
Perfino in politica, infatti, esistono dei processi irreversibili: e, dunque, non torneranno i fasti dei consensi antipolitici per i pentastellati, ora assai preoccupati dalla cospicua riduzione delle loro poltrone (la nemesi finale per chi ha trionfato nell’abborracciato referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari).
Nella teoria dei giochi esistono quelli di tipo win-win, e quelli lose-lose. E per Conte – che sta perdendo anche il patrimonio personale di popolarità su cui i maggiorenti 5 Stelle contavano – comunque vada non sarà un successo.