A una cert’ora Matteo Salvini fa sapere di essere in giro per Roma a vedere «professori e avvocati». E poco dopo lo staff di Giuseppe Conte ci tiene a precisare che pure l’avvocato del popolo, perdiana, turbina per le strade della capitale a fare cose, vedere gente e proporre una candidatura alla presidenza della Repubblica a un sacco di “papabili”.
Ché tanto son giorni che la corsa al Quirinale sembra un grande falò, un gioco vanitoso e pericoloso dei leader ad ardere candidati e figure illustri del Paese, a bruciare nomi come cerini fino a correre il rischio di incenerire le proprie leadership. E dalle ceneri, ora dopo ora, sembra riemergere la fenice di Mattarella.
Son svaniti in una nuvola di fumo via via la seconda carica dello Stato Elisabetta Casellati e l’ex presidente della Camera Pier Ferdinando Casini, è stata una scintilla l’esimio giurista Sabino Cassese, un fuoco d’artificio lettiano Elisabetta Belloni, la diplomatica ai vertici dei servizi segreti. Puff.
Poi una serie infinita di fuochi fatui: «Massolo chi, un altro del Dis? E daje», bubbola un alto dirigente del Pd a tarda serata alla notizia di un incontro, poi smentito, con il capo della Lega. In serata, poi, il leader del Carroccio fa sapere che «lavora su Frattini» e in Forza Italia subito ricordano che «Franco è un amico, certo, ma di Putin», rivela un fedelissimo del cavaliere. «Se spacchiamo la maggioranza salta tutto», avverte Luigi Di Maio per interposta Laura Castelli. È un messaggio a Conte. Perché il nome dell’ex ministro degli Esteri finisce sul tavolo del centrodestra. È il tentativo di compattare un fronte populista. Il professore di Volturara Appula, nell’ennesima fumata nera, in fondo si è contato, gli basterebbero cento fedelissimi per convergere su un nome che spaccherebbe la maggioranza Draghi e aprirebbe la strada alle elezioni. Una soluzione che farebbe deflagrare il Movimento ma possibile se il capo del Carroccio riuscisse a trascinare con sé l’ala più integralista dei forzisti. Uno scenario fosco che fa infuriare Enrico Letta: «Basta provocazioni». «In un parlamento così frammentato nessuno ha i numeri, tutti abbandonino la pretesa di fare i kingmaker».
Così, «in questa frenetica piromania che brucerebbe anche il governo e la legislatura è normale che s’avanzi il Mattarella bis», ragiona sempre l’alto dirigente dem. Perfino Mario Draghi, del resto, è sulla graticola da troppi giorni.
Se è vero che le regole non scritte dell’elezione al Colle fanno prevalere non chi ha più voti ma chi ha meno veti, gli sbarramenti sul presidente del Consiglio cominciano ad essere troppi. Il premier è percepito come un marziano. Un decisionista che in undici mesi di governo ha condiviso pochissimo e pochissimo condividerebbe una volta salito al Colle. Tanto che Silvio Berlusconi, dopo aver ricevuto auguri affettuosi dal premier di pronta guarigione, invia a Palazzo Chigi Antonio Tajani a dire che sì, «per la salvezza e la stabilità del Paese», è bene che resti dove è, niente trasloco. Salvini è irremovibile. Figurarsi Conte. È convinto che l’ex presidente della Bce sia il responsabile della sua uscita di scena. Fra i grillini, esclusi i devoti a Di Maio, aleggia il sospetto che non «garantirà un governo fotocopia», confessa un deputato 5Stelle, «ma Giuseppe non può tramare con il leghista, romperebbe il patto con il Pd e automaticamente cadrebbe tutto, per questo molti di noi hanno votato Mattarella.
In caso di palude sarebbe la via d’uscita d’emergenza». «Salvini ha detto che fa il nome condiviso», dice entrando alla buvette il vicesegretario dem Peppe Provenzano. «E certo, lo aveva detto anche ieri e pure l’altro ieri», motteggia Matteo Orfini. E i frizzi e i lazzi sulla strategia del sovranista si sprecano anche fra gli alleati. In fondo, il centrodestra alla quarta chiama ha evitato la rottura con una prova di viltà: astensione. Matteo il leghista era andato a letto promettendo Casini a Enrico Letta, «s’è risvegliato rimangiandosi la parola dopo la furia di Giorgia», rivela un senatore del Carroccio. L’altro Matteo fa il rignanese incazzoso: «Uno show indecoroso».
La Meloni calca i tappeti rossi di Montecitorio sempre più nera. «Noi siamo pronti a convergere su Cassese e su Belloni», dice in mattinata Giovanni Donzelli, deputato e uomo macchina di Fratelli d’Italia, «la Lega ci viene dietro? E il Pd?». Ecco, anche per il segretario dem la giornata non è un trionfo. «La Belloni? Un nome plausibile, autorevole», dice Francesco Boccia mentre nell’emiciclo si vota e a pochi metri, in Transatlantico, monta una mezza rivolta nel gruppo. «Il capo dei servizi al Quirinale? Nemmeno in Nicaragua», si lascia scappare in un capannello Stefano Ceccanti.
Ma pure Dario Franceschini, Graziano Delrio e Andrea Orlando mobilitano le correnti. «Controllano il tempo che passiamo nell’urna? Io voto Mattarella e ci impiego un minuto, voglio vedere se hanno il coraggio di dire qualcosa», rivela ardimentoso un delegato regionale sfidando gli sguardi di Emanuele Fiano e Piero De Luca, piazzati di vedetta nei palchi dell’aula. Insomma, i 166 voti al presidente uscente sono un segnale di stop. Letta rischierebbe un congresso anticipato nell’urna se spingesse su Belloni. Ma anche una seria indicazione su Mattarella.
«Il pensiero dei parlamentari dovrà pur contare», ragiona la napoletana Valeria Valente. Anche la Cei dà il suo placet con il capo dei vescovi Gualtiero Bassetti. Dal silenzio ufficiale del Colle, trapela solo un messaggio ufficioso: Mattarella accetterebbe solo se fossero tutte le forze politiche a chiederglielo. Certo, dopo Napolitano, sarebbe un replay, un nuovo crash della politica, un’altra dimostrazione di incapacità della classe dirigente del Paese. Ma non un inedito repubblicano quanto l’orizzonte di un Presidente populista, amico della Russia, sgradito all’Europa e all’America.