TRIESTE. Difficile trovare un film così perfetto per aprire un festival. Così rappresentativo, in particolare, e intimamente aderente allo spirito del Trieste Film Festival, che attraverso il cinema ha avviato sin dal principio una riflessione profonda e costante su temi cardine come l'identità e la memoria dei popoli mentre l'Europa, lungo le sue 33 edizioni, mutava anche violentemente i connotati. Certo, la cavalcata di Kornél Mundruczó e Kata Wéber, coppia artistica e nella vita, lui dietro la macchina da presa lei alla scrittura, è ormai sotto gli occhi di tutti, e con un che di trionfale, dai successi di Cannes alla candidatura agli Oscar del loro precedente film.
Ma «Quel giorno tu sarai (Evolution)», che venerdì alle 20 inaugurerà in anteprima italiana la kermesse al Politeama Rossetti, per poi uscire nelle sale il 27 gennaio distribuito da Teodora Film, è un'opera che più che mai in questa sede può lasciare il segno, così audace, potente, obliquo e anche disturbante è il discorso che avvia sull'eredità di una memoria com'è quella della Shoah, fatto di fertili contrasti che sprigionano una drammaturgia spiazzante (lo sbilanciamento nei dialoghi, ad esempio, ma anche l'elemento surreale che irrompe a gamba tesa nel reale), visivamente virtuosistico all'ennesima potenza.
Non solo: a cavallo tra la cerimonia d'apertura e la proiezione sarà assegnato uno dei tradizionali premi della manifestazione, l’Eastern Star Award, nato per segnalare personalità che con la loro carriera hanno gettato un ponte tra Est e Ovest. Dopo Miki Manojlović, ultimo premiato nell'edizione online dello scorso anno, l'Eastern Star andrà nelle mani, stavolta, proprio di Mundruczó e Wéber, che interverranno da Budapest con un contributo video.
Con la sua struttura in tre atti attraverso tre periodi storici diversi, recitato e sottotitolato in più lingue, «Quel giorno tu sarai» si pone subito in un'ottica più sperimentale e meno commerciale di "Pieces of a woman", il dramma ambientato negli Usa che ha rivelato al mondo la coppia ungherese prodotta sul set da Martin Scorsese. Sperimentale già dall'incipit, che sarebbe criminale rivelare. «Un salutare shock per gli spettatori e per chi fa cinema», ha affermato l'autore di "Taxi driver".
Ciò che si può dire senza rovinarne la visione è che si tratta di una quindicina di minuti senza dialoghi che travolgono lo spettatore in un piano-sequenza claustrofobico e febbrile - con il formato 4:3 che chiude ulteriormente l'ottica - sprofondandolo nel buio e nell'orrore, salvo poi elevarlo alla luce attraverso un coup de théâtre dal forte impatto.
Non a caso il film ha una matrice teatrale, nascendo come pièce. Un elemento surreale-allegorico che ritornerà, e sarà un'altra sorpresa su cui sorvoliamo, nel secondo episodio, retto sulle spalle della protagonista (una superba Lili Monori) divenuta anziana, del primo frammento. Eva, il suo nome, discute con la figlia Lena sulla complessa eredità ebraica della famiglia: il peso del passato irromperà, e non solo metaforicamente.
La Berlino dei giorni nostri è invece la location del capitolo conclusivo del film, che ruota attorno al figlio adolescente di Lena e chiude il cerchio con una speranza, anche se rispetto al tono audace dei primi due capitoli appare più leggero e consolatorio.
Per l'inaugurazione, una pre-apertura tutta triestina vedrà alle 18 al Rossetti due documentari: "Freikörperkultur" di Alba Zari presentato in anteprima alla Settimana Internazionale della Critica di Venezia 2021 e, in prima assoluta "Tullio Kezich, a proposito di me" di Gioia Magrini che ripercorre l’attività poliedrica del critico cinematografico e scrittore dalla nascita a Trieste. —