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A Torre di Fine 50 anni fa le prime classi a tempo pieno. «Per noi bimbi fu meraviglioso»

TORRE DI FINE. Gli insegnanti più anziani, per i quali la scuola elementare era saper leggere, scrivere e fare di conto come da programmi del 1955, li consideravano un po’ degli scavezzacollo. «Poi, anche grazie al sostegno delle famiglie, riuscimmo non solo a farci accettare, ma anche a far passare il nostro modello educativo, fu un’esperienza bellissima».

Nel 1972 il maestro Giancarlo Cavinato, fresco vincitore di concorso, aveva 23 anni e voglia di cambiare la scuola. Con lui c’erano colleghi come Riccardo Carlon, Adriana Scibelli e Ubaldo Rizzo, punti di riferimento del Movimento di cooperazione educativa (Mce).

Passione e voglia di rimboccarsi le maniche. Dai libri di pedagogia alle classi, l’euforia dei pionieri. L’occasione arrivò dove meno se lo sarebbero aspettati. Alla scuola elementare Marconi di Torre di Fine, frazione di Eraclea, un nugolo di case tra i canali nella campagna più remota agli occhi di chi la raggiungeva da Venezia o Mestre.

Qui tra i canali Ongaro e Revedoli, grazie alla volontà del Comune, per la prima volta venne introdotto il tempo pieno alle scuole elementari. E da Torre di Fine, in buona parte grazie a questo gruppo di docenti, si diffuse poi nel resto della provincia. Musile di Piave, Camponogara, Oriago di Mira e Spinea. Solo qualche anno più tardi il tempo pieno arrivò a Mestre e a Marghera, la Baseggio, al Cep di Campalto.

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«Da Mestre ci contattavano in tanti per capire come attivare il tempo pieno ma in quegli anni», ricorda Cavinato, «ma nelle scuole elementari di Mestre c’erano anche i doppi o i tripli turni, perché c’erano tanti bambini e poche sedi. Era tecnicamente impossibile riuscire a realizzare il tempo pieno». Anche perché - oggi può sembrare banale dirlo ma al tempo non era così - una scuola per il tempo pieno ha bisogno degli spazi per la mensa, i laboratori. E all’epoca non c’erano. Nel 1972 a Torre di Fine, quell’edificio di nuova costruzione, era stato invece il luogo ideale per mescolare le lezioni di italiano con i laboratori di musica, i conti di matematica la ceramica, la catalogazione delle foglie con gli esercizi di geometria.

«Ci dovevamo inventare tutto, perché la riforma che aveva introdotto il tempo pieno era dell’anno precedente, il 1971, ma non c’era indicato un vero modello», racconta Cavinato, «per questo ci confrontavamo con i colleghi di Torino e Bologna, dove per primi erano partiti con queste esperienze, quando ancora si parlava di tempo integrato».

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I maestri trovarono casa in zona, era a tempo pieno anche il loro impegno. Alcuni ricordi di Cavinato: «Le classi nell’anno 1972-73 erano otto di cui due prime. Gli insegnanti erano 12, di cui 8 giovani e 4 anziani che si ritrovarono improvvisamente a fare un orario e un tipo di scuola che non avevano scelto, con le resistenze immaginabili. Le classi erano tutte di nuova formazione provenendo da piccole scuole delle varie frazioni che erano state chiuse facendo convergere tutti gli alunni nel plesso capoluogo. C’erano molti ripetenti».

Quelli erano gli anni dell’animazione, di Rodari. «Una didattica degli stimoli più che di modelli precostituiti. Tutto questo ci rendeva certo insopportabili a colleghi di lunga esperienza e non laureati».

Alcuni modelli di riferimento: la pedagogia attiva, Célestin Freinet, Mario Lodi e il Mce. «Teatro, cinema, fotografia, laboratori scientifici in giardino e gite», prosegue Cavinato. E poi la mensa. «Dar da mangiare ai bambini si è trasformato da momento assistenziale a momento educativo, di scambio e di condivisione».

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Qualche anno dopo, nel 1978, arriverà l’abolizione dell’Eca (Ente comunale di assistenza). Per anni, sostenuto dalle famiglie, di pari passo con l’occupazione femminile, il tempo pieno si è diffuso in tutta la provincia. A Martellago, dove Cavinato arrivò da preside, fu introdotto negli anni Novanta. Ma proprio in quegli anni, nonostante le richieste delle famiglie, l’allargamento del tempo pieno subì una battuta d’arresto, in coincidenza con la crisi del sistema di welfare.

I dati oggi, a livello italiano, raccontano di un Paese spaccato a metà. Nelle regioni del Sud il tempo pieno è una possibilità per meno di due bambini su dieci. Nel Veneziano (dati 2021) su 35.353 studenti delle scuole elementari, 19.258 frequentano classi a tempo pieno, il 54,5%. «Eppure di tempo pieno ci sarebbe ancora tanto bisogno», riflette Cavinato, «perché è nel rapporto con i compagni che i bambini crescono, con i laboratori. Così si evita la dispersione scolastica, e c’è bisogno del tempo pieno già da zero anni, come suggerisce anche l’Unione Europea.

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«ESPERIENZA ILLUMINANTE, SIAMO COME UNA FAMIGLIA»

Giuseppina Capiotto, ex alunna ora infermiera, racconta la sua storia. «Eravamo figli di contadini, fu fondamentale per la mia crescita»

MUSILE. «Eravamo una grande famiglia. Quella scuola è stata illuminante. Per tutti noi, figli di contadini, ha rappresentato un modo nuovo di apprendere delle cose, che per gli altri bambini della nostra età erano impensabili. È stata fondamentale, come base di tutto il mio sviluppo come persona». Da bambina Giuseppina Capiotto è stata una delle alunne di quelle prime sezione a tempo pieno della scuola elementare di Torre di Fine. Oggi ha 55 anni, abita a Musile, è infermiera. E il suo cuore è rimasto legato a quella classe.

Che giudizio dà di quella prima esperienza di scuola a tempo pieno?

«Ne conservo un ricordo molto positivo. Sono nata con un problema al palato, per cui avevo un difetto di pronuncia. Sono arrivata alle elementari un po’ in ritardo rispetto ai miei compagni, proprio perché dovevo andare in ospedale per i miei problemi. Ma la mia esperienza in quella scuola è stata positiva, sia dal lato umano che dal punto di vista didattico. Mi piaceva apprendere cose nuove e mi piaceva com’ero stata accolta in quella scuola, in cui venivano messe in luce le mie capacità di studio. Il maestro Giancarlo è arrivato dopo i primi due anni, con lui instaurai un rapporto meraviglioso, che ricordo ancora con tanto affetto».

Come si svolgeva la vostra giornata scolastica?

«La mattina era dedicata allo studio, all’apprendimento e alle verifiche. Era una scuola normale, svolgevamo le regolari attività inerenti al programma scolastico. Quello che cambiava era il pomeriggio, in cui ci dedicavamo ad attività nuove, quali esperimenti scientifici o laboratori tecnici. Si apprendevano anche delle manualità che, per dei bambini di un paese così piccolo come Torre di Fine, sarebbero poi potute servire in futuro. Tutte attività che i ragazzi delle altre scuole non facevano avendo il tempo ridotto. Mentre noi, che eravamo le uniche sezioni a tempo pieno, avevamo anche la possibilità di mangiare a scuola. Quelle del pomeriggio erano attività divertenti e coinvolgenti. Contribuivano a creare aggregazione tra di noi, eravamo felici di quello che facevamo».

Vi rendevate conto di essere protagonisti di un’esperienza formativa nuova?

«Allora non ce ne rendevamo conto, per noi era normale. Eravamo bambini di 6 o 7 anni e calati in un ambiente non di città, ma contadino. La coscienza l’abbiamo maturata dopo, quando siamo cresciuti. Nel mio caso, quando sono andata alle scuole superiori e poi all’università, mi sono resa conto dell’innovazione di quella scuola che avevo frequentato. Sono cresciuta con determinate idee, anche molto liberali, e quella scuola mi è servita per formare il mio senso di libertà, di sperimentazione».

È vero che tuttora vi ritrovate tra compagni di classe?

«Certamente. Fino all’inizio della pandemia ci ritrovavamo almeno una volta all’anno. Proprio perché tra di noi, bambini di quell’epoca, è rimasto un senso di fratellanza. Eravamo una grande famiglia e tra di noi è rimasto un grande affetto. Ci siamo ritrovati anche con vari insegnanti. Il maestro Cavinato è stato una figura di riferimento. Dal punto di vista umano, mi ha preso per mano e mi ha aiutato in una maniera splendida, lo conservo nel cuore. E non appena la pandemia lo renderà possibile, organizzeremo un nuovo incontro».

Lorenzo Porcile - Il preside Luigi Zennaro

«OCCUPAZIONE FEMMINILE E RICHIESTE IN CRESCITA DA PARTE DELLE FAMIGLIE»

Parla  Luigi Zennaro, vicepresidente regionale e presidente provinciale dell’Associazione nazionale presidi

MESTRE. Il tempo pieno piace sempre più alle famiglie. Per molte è soprattutto una scelta di tipo organizzativo, considerato che entrambi i genitori lavorano e quindi tenere i figli a scuola fino al pomeriggio inoltrato rappresenta una soluzione migliore per coniugare gli impegni. Ma dietro al tempo pieno c’è soprattutto un’importante opportunità di tipo educativo, come tengono a sottolineare docenti e dirigenti scolastici.

«La sensazione è che il tempo pieno sia una scelta gradita alle famiglie», dice Luigi Zennaro, vicepresidente regionale e presidente provinciale dell’Associazione nazionale presidi. Zennaro dirige l’istituto comprensivo Gramsci di Camponogara, dove sono a tempo pieno tutti e tre i plessi della scuola elementare. Camponogara, in Riviera, fu con Mira all’avanguardia nell’istituzione delle classi a tempo pieno. In altre zone della provincia già si sta lavorando per estendere il tempo pieno anche ad altri livelli scolastici, in particolare alle medie.

«L’impressione è che quella del tempo pieno non sia una scelta meramente educativa. Ma questa decisione sia legata anche alle mutate condizioni economiche e organizzative delle famiglie», commenta Zennaro, «Fino a 30 oppure 40 anni fa, c’erano diverse mamme che non lavoravano oppure lo facevano da casa o lavoravano per poche ore. Adesso, oltre ai papà, anche le mamme in prevalenza lavorano, per non dire tutte. E alla fine la soluzione migliore si rivela quella di portare i figli a scuola più tempo possibile».

Con le lezioni delle classi a tempo pieno che iniziano alle 8.15 e finiscono alle 16.15, i genitori hanno modo di organizzare meglio la loro giornata lavorativa. Il tempo pieno, dunque, è stato anche un importante traino per l’occupazione femminile. Ma i dirigenti scolastici tengono a sottolineare più le opportunità educative offerte dal tempo pieno.

«Nell’istituto che dirigo», aggiunge Zennaro, «la scelta del tempo pieno, fatta dalla dirigente che mi ha preceduto ma che io condivido, è stata di tipo educativo. Il tempo pieno è l’occasione per gli alunni di avere un maggiore numero di ore di presenza con il docente in classe. Chiaramente dobbiamo pretendere meno lavoro a casa. Anzi, non ne pretendiamo nulla, se non qualche compito nel fine settimana. La scuola si assume inoltre tutta la responsabilità della mensa, che gli alunni vivono anche come un’esperienza di educazione alimentare».

Nel caso della mensa, è importante sottolineare anche lo sforzo che fanno le amministrazioni comunali per garantire il servizio, specie in questo periodo di pandemia. Insomma, il tempo pieno rappresenta la sintesi di diverse esigenze e opportunità, che si contemperano.

«Come scuole, noi investiamo nella parte formativa», conferma Zennaro, «ma le famiglie gradiscono anche l’opportunità di poter gestire al meglio la loro giornata».

LE LEZIONI ONLINE SU ZOOM E LA DISPERSIONE SCOLASTICA

La sfida dell’istruzione durante la pandemia. Il modello a tempo pieno va meglio o peggio?

La sfida più grande che la scuola sta affrontando in questi mesi è quella della pandemia. Per molti studenti lo schermo acceso su Zoom è stato - soprattutto durante la prima emergenza - l’unica finestra sul mondo. Molti ragazzi veneti hanno iniziato a manifestare i disagi dovuti a un periodo di socialità azzerata.

È unanime la testimonianza dei dirigenti scolastici nel raccontare le difficoltà affrontate nel trattenere davanti allo schermo gli studenti che vivevano le situazioni più complicate. Un tentativo che spesso non è andato a buon fine, perché coinvolgere un ragazzo già in difficoltà, semplicemente con la mediazione di un computer e senza un vero contatto, è un’impresa dall’esito spesso incerto.

È la foto scattata qualche mese fa dallo sportello psicologico regionale, che, con la regia del Miur e della Regione, ha coinvolto 538 scuole secondarie in veneto. Problemi affrontati anche dalle scuole elementari e che creano preoccupazioni soprattutto per i rischi di dispersione scolastica, in aumento.

Ogni cento studenti che, l’anno scorso, avrebbero dovuto frequentare le superiori, uno non si è presentato in aula. È questa l’entità del fenomeno della dispersione scolastica nel Veneziano, termine nel quale rientrano le mancate iscrizioni dopo la bocciatura, i ritiri nel corso dell’anno e le assenze continue.—

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