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Giacomo Guidi: dallo sport all’arte di Contemporary Cluster

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L’arte, ieri, era un viaggio in una città sconosciuta: «Quando facevo l’atleta e mi trovavo all’estero per disputare una gara di Coppa del Mondo amavo vagare per i musei sfruttando i tempi morti tra un allenamento e l’altro». Giacomo Guidi è stato un atleta. Uno schermidore di grande talento. Con la sciabola nella destra e i piedi a danzare sulla pedana ha vinto il suo primo campionato del mondo a 15 anni, nel 1998, per poi accumulare medaglie fino a fermarsi sulla soglia di un’Olimpiade, quella di Atene, nel 2004 che ancora è rimpianto, dispiacere, quadro incompiuto.

A Roma, dove Giacomo Guidi vive ed è nato si dice che davanti a chi si chiude una porta si spalanca sempre un portone. E lui, che alle occasioni crede non meno che ai cambi di prospettiva, in quel portone si è infilato cambiando pelle, abiti e professione.

«Lo sport fa male» ironizza oggi, a più di quindici anni dalla decisione di chiudere con un mondo per esplorarne un altro, quello dell’arte, che con il tempo gli ha dato enormi soddisfazioni. Da poche ore, con mille persone all’opening, da direttore artistico di Contemporary Cluster ha dato vita all’ennesima visione: il recupero di Palazzo Brancaccio, gioiello incastonato nel quartiere Esquilino, fino a ieri patria del Museo Nazionale d’arte Orientale e ora aperto alla contaminazione tra architettura, fotografia, design, visual art, sound design e fashion design. Un nuovo polo culturale e interdisciplinare che da un lato scommette sulla rinascita di Roma e dall’altro è la prosecuzione ideale dei molti esperimenti messi in piedi da Guidi lungo un percorso non sempre piano, mai quieto, costantemente alla ricerca di un orizzonte non statico in continuo movimento.

Se c’è qualcosa che la stagione con la sciabola ha lasciato in eredità a Guidi è la concentrazione. «La gestione di se stessi, il controllo, la capacità di vedere una linea di passaggio dove altri scorgono un muro». Dopo aver rinunciato a una parte dell’adolescenza per lo sport: «Ma esageri pure: ho rinunciato all’adolescenza intera, non solo a una parte» sostiene lui, Guidi ha ritrovato un principio di fanciullezza nella scoperta degli artisti e nella progettazione di un sogno che adesso si è fatto plastico, concreto, tangibile. Da ragazzo, quando la scherma occupava quasi tutti gli spazi, Guidi: «per rilassare la mente» frequentava nel tempo libero i grandi vecchi che per ascendenza, natali o scelte erano precipitati a Roma. «Renato Mambor, Sergio Lombardo e Fabio Mauri. Gente a cui la scherma ricordava un’idea di eleganza antica ed assoluta incarnata da figure semi-divine. Qualcosa che come diceva Mauri richiamava la musa inquieta di De Chirico e che lui stesso, da ragazzo, aveva vissuto da testimone oculare a Milano perché all’epoca, nelle famiglie come la sua, quello sport era preferito ad altri. Si riteneva che abituasse al metodo, alla disciplina e al rigore».

Nello sport, come nell’arte, argomenta Guidi: «Il grande teatro della vita mette sul tavolo le sue carte e ti abitua alle sconfitte non meno che alle vittorie». Guidi ha conosciuto le prime e sta imparando ad assaporare le seconde. Si riconosce: «Ambizione e voglia di imporsi» e anche se da direttore artistico di uno spazio enorme come il Brancaccio deve costringersi a una razionalità da manager si impegna a non perdere: «estro creativo, fantasia, rischio».

Nell’inseguire l’ipotesi Brancaccio sono state necessarie tutte e tre le componenti ed è stato necessario non riscoprirsi individualisti: «Una lezione che ancora una volta mi ha dato la scherma. Ho lavorato in squadra scoprendo che la staffetta non è una semplice somma di punteggi, ma serve la “colla”, l’unità di intenti, la condivisione di un progetto”. A Palazzo Brancaccio è accaduta la stessa cosa. Guidi ha lavorato fianco a fianco con Giorgia Cerulli, architetto e curatrice del settore design storico e arti applicate e con altri professionisti come Andrea Azzarone del cui Spazio Field, Guidi curerà, al piano nobile del palazzo, la programmazione artistica.

Negli anni, nonostante gli sia accuduto di litigare per un’idea, Guidi ha placato gli istinti giovanili. Quando dovette rinunciare alle Olimpiadi per una «manovra di palazzo» dice «mandai a fare in culo tutti e mi si ruppe il giocattolo in mano». Nel tempo ha imparato a domare le delusioni, a indirizzare la rabbia giovane in una direzione costruttiva, a fare come gli consigliava il suo maestro, il grande Sandro Donati «di necessità, virtù». Donati, nemico giurato di ogni doping: «Si incazzava anche se prendevo anche la vitamina C» ricorda Guidi, credeva nelle pulizia di intenti e in una gara ideale in cui tutti partissero dal medesimo blocco e con le stesse possibilità.

Per Guidi gli inizi sono stati più complessi e per arrivare al traguardo è dovuto partire qualche metro indietro. «Perché il mondo dell’arte italiana, che pure sta evolvendo, ha somigliato per troppi anni a una palude autoreferenziale che ama prendersi troppo sul serio e guarda con pregiudizio chi ci si affaccia senza aver, per quelli che “benpensano” come diceva Frankie Hi Nrg, il pedigree giusto». Il risultato «di questa chiusura» secondo Guidi «ha fatto che l’arte si facesse male da sola e che tutto un pubblico molto interessato e interessante se ne andasse». Dell’antica ripartizione di Achile Bonito Oliva: «L’artista crea, il collezionista compra, il gallerista vende, i musei fanno le mostre» ricorda Guidi «è rimasto poco». Al suo posto, dice Guidi, si è lentamente affermato uno «smallworld» che ha ignorato a lungo «i concetti più elementari di imprenditoria di mercato, li ha snobbati e li guardati con orrore» e troppo intento ad «omaggiarsi» e riottoso «al nutrimento di dialogo con altre sfere creative e con professionisti di altri settori che invece- parlo di architetti, designer, cantanti, tatuatori-  sono artisti a pieno titolo e avrebbero meritato un dialogo reale, ha finito per spegnersi».

Per riaccendere la fiamma, Guidi ne è certo, serviva aprire una falla nei compartimenti stagni. Nei due anni surreali segnati dal Covid è accaduto. «La bolla è scoppiata e la Pandemia ha accelerato la crisi delle vecchie realtà dimostrandone la fine». Il sistema, lo stesso sistema dell’arte, dice Guidi: «cercava una rigenerazione». Una commistione di mondi in cui le arti «si contaminassero». Palazzo Brancaccio, spera Guidi, può essere uno di quei luoghi «nuovi». Un luogo inquieto, in continua ricerca, in ansiosa ma felice trasformazione. A Guidi l’inquietudine piace. Gli sembra una promessa di bellezza: «La tranquillità non abita dalle mie parti e ci faccio i conti fin da quando ero piccolo. Mi piace mettermi in gioco, creare una linea di tensione, cercare di spostare la mia idea originaria fino al confine dell’immaginazione. È un esercizio di proiezione che con l’esercizio quotidiano aiuta ad esaudire i desideri e a veder realizzati i sogni. Ti aiuta a controllare certe cose e a definire  scopo, missione e obiettivi. Non amo passare il tempo senza motivazioni e non per mitomania, ma perché altrimenti non ne vale la pena». A volte, dice Guidi: «Mi capita di vedere le cose con triste anticipo».

Nell’esperimento di Palazzo Brancaccio, vede la possibilità di spostare veramente l’equilibrio artistico di una città che dall’arte è permeata e la responsabilità dell’azzardo. Vede Soho. Vede Tribeca. Vede i precedenti esteri e l’opportunità di riqualificare ulteriormente un intero quadrante della città. La sua città. «Una città di osservatori e non di player. Una città in cui le persone che fanno le cose sono davvero poche perché gli altri aspettano e giudicano». Respira, riflette. Poi sorride e gli pare di chiudere il cerchio di una vita intera: «Roma non puoi cambiarla, però è una gran bella palestra».

Ph credit: Giacomo Guidi – Ph. Cloro, presso Contemporary Cluster (Abiti Fabio Quaranta, Cappello Solórzano)

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