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Mario Mori: «Stato-Mafia, è prevalsa la legge sul pregiudizio»

«L'unica cosa di cui mi pento è non averne presi abbastanza di mafiosi. Se il giorno in cui arrestammo Riina lo avessimo seguito e non catturato subito, ci avrebbe condotti dritti a una riunione con altri capomafia. Li avremmo presi tutti in un colpo solo». A dirlo è Mario Mori, che non intende però commentare la sentenza di assoluzione, almeno fino alla lettura delle motivazioni.

«In un processo, specie in appello, si valutano i fatti e le carte processuali. E quelle erano ben chiare. I giudici sono stati scrupolosi e hanno fatto prevalere la legge sul pregiudizio» è sempre stata la sua certezza, nonostante la condanna in primo grado. Il Generale è un uomo che non si è mai arreso. Non nella lotta alla mafia, figurarsi nel confutare l'impianto accusatorio della presunta trattativa stato-mafia.

In realtà, ad averlo reso quasi imperturbabile in tutti questi lunghi anni di accuse infamanti, sono le certezze di chi ha sempre saputo in quale campo era schierato. «Sono stato un ufficiale in servizio permanente per tanti anni, ma da vent'anni anche un indagato in servizio permanente» dice oggi Mori, che alle sirene delle polemiche ha sempre preferito la fermezza della ragion di Stato.

Per quanti, come lui, hanno fatto la storia di questo Paese e conoscono bene il significato di indossare una divisa, non c'è mai stato alcun ripensamento sulla propria lealtà e sulla missione cui erano stati chiamati. Quanti possono dire la stessa cosa, alla luce di questa sentenza?

Lucido nell'analizzare le vicende che ne hanno in parte oscurato il nome, grazie all'opera del principale erede della «scuola Dalla Chiesa» e a quella di molti altri funzionari pubblici, la piaga della mafia fu combattuta e vinta dallo Stato senza piegarsi o scendere a patti. Anche perché bisognerebbe chiedersi esattamente quale «Stato» avrebbe poi in effetti trattato con la criminalità organizzata. La risposta a questa domanda è sempre stata elusa, mentre l'impianto accusatorio ha prodotto chilometri d'inchiostro e obnubilato il giudizio di grandi e piccoli commentatori e politici per decenni.

Pensare che all'epoca delle stragi, in quel tragico 1992, presidente della Repubblica fu eletto Oscar Luigi Scalfaro, e pochi mesi dopo l'arresto del capomafia Totò Riina, Carlo Azeglio Ciampi divenne presidente del Consiglio, con Giovanni Conso suo ministro di Grazia e Giustizia: «Tre personaggi specchiati, tre miti dell'età repubblicana», come li ha definiti Paolo Mieli, in prima fila tra i ravveduti nel giudizio storico sulla trattativa. Lui stesso si è chiesto chi mai avrebbe pertanto ordinato quella trattativa? Da quale alto livello sarebbe mai giunta? Si è preferito dribblare la domanda.

«Il morto, interrogato, non rispose», come scrissero i giudici nel processo a Bonifacio VIII, il Papa che credeva nella superiorità della Chiesa e che subì l'oltraggio di cronache tendenziose e di un processo postumo, in cui il re francese e il partito dei Colonna gli attribuirono colpe dalle quali il pontefice non poteva più difendersi.

Non così per il generale Mori, il quale molte volte ha confidato ai suoi l'esigenza di «restare vivo» sino alla fine dell'iter processuale, per vedere sconfitti i suoi accusatori e ristabilita la verità e l'onore, tanto per lui quanto per i suoi colleghi. Onore che oggi, all'età 82 anni, gli viene restituito proprio da quella Palermo che lo ha visto in prima linea nella caccia ai corleonesi, ma che suona comunque come un riconoscimento tardivo.

Qualcosa, comunque, è cambiato nell'aria. I plotoni di complottisti battono in ritirata e arrivano i primi «mea culpa» per quanti hanno contribuito a delegittimare lo Stato e i suoi servitori. Certo, gli irriducibili che hanno costruito carriere sulla suggestione della trattativa, fino a ridurre certi eroi della Repubblica a delle macchiette, con ogni probabilità non esterneranno alcun pentimento. Neanche dopo questo verdetto storico.

Forse alcuni rimarranno persino intimamente convinti della proprie ragioni, come gli ultimi giapponesi che non lo vollero riconoscere la sconfitta e continuarono a combattere una guerra personale per molto tempo dopo la fine del conflitto mondiale. O forse, divorati dall'orgoglio, proveranno a confutare la verità con nuovi libri le cui fantasiose ricostruzioni faranno breccia nelle menti di chi preferisce credere ai romanzi che non alla verità. Un po' come accade oggi con chi si ostina a preferire i blogger agli scienziati.

Ma per tutta l'altra gente, per la società civile a cui non «si fa notte innanzi sera», è giunto il tempo (e con esso l'occasione rara) di chiudere una lunga ed estenuante stagione di veleni, voltando finalmente pagina e riconoscendo che la sistematica delegittimazione degli uomini che hanno combattuto – e vinto – la mafia, non ha fatto altro che allontanare gli italiani dalle istituzioni, contribuendo ad alimentare quel fiume carsico di «complottisti delle domenica» che trovano più sgradevole rispettare una divisa che non un criminale.

Per quanto riguarda il circo mediatico, invece, la sentenza di Palermo dev'essere da subito inserita come materia di studio nelle scuole di giornalismo: un monito severo a non organizzare più campagne denigratorie volte a sbattere il temporaneo «mostro in prima pagina», senza curarsi delle conseguenze per i diretti interessati e le loro famiglie.

In definitiva, è stato proprio questo fumus persecutionis ad aver contribuito al nascere dell'antipolitica negli ultimi due decenni. E non si può non riflettere sul fatto che il delegittimare metodicamente gli organi dello Stato alimenta preoccupanti sentimenti d'odio sociale, che nel migliore dei casi possono condurre a inusitate richieste di «impeachment» per un presidente della Repubblica, e nel peggiore conducono dritti fino al fanatismo e al terrorismo.

In parte, l'assoluzione degli ex ufficiali del Ros Mori, Subranni e De Donno e dell'ex senatore di Forza Italia Dell'Utri, accusati di minaccia a corpo politico dello Stato, rappresenta una bella vittoria per l'Italia e la ragion di Stato. Ma diverrà lo stesso una sconfitta se non sapremo imparare da simili errori di giudizio. Per una volta, in questi tempi incerti per la sua stessa istituzione, com'ebbe a dire Montesquieu, l'esercizio della giustizia ritrova con questa sentenza il suo ruolo centrale «per la pubblica tranquillità, per l'esatta amministrazione della giustizia, per la sicurezza della magistratura, per il rispetto tributato alle leggi, per la stabilità della Repubblica».

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