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Afghanistan, il mondo alla rovescia dei talebani

I seguaci del mullah Omar imbracciano moderni mitragliatori americani, sfoggiano occhiali a specchio e sneaker alla moda, portano il rimmel, rifiutano la democrazia e invocano la sharia. Discriminano le donne, razionano i prelievi dalle banche e non pagano gli stipendi. Tra la gente, c'è chi li appoggia «perché hanno portato sicurezza» e chi ha il coraggio di protestare. Ma senza aiuti dall'estero, e con il pericolo di faide interne, l'Afghanistan rischia di crollare.



«Non vogliamo la democrazia, ma la sharia. Abbiamo combattuto per vent'anni contro l'occidente e i suoi valori» pontifica «barbanera», comandante talebano veterano della guerra santa in Afghanistan, invocando la dura legge del Corano. Maulawi Mohammed Sharif Ahmad, 46 anni, lotta con i seguaci di mullah Omar fin dal primo emirato islamico. «Sono nato talebano. Mio padre è un martire della jihad contro i sovietici e con orgoglio ho raccolto il testimone della lotta per cacciare gli americani» spiega mentre ci scorta verso la «pietra nera», un caposaldo arroccato a Maidan Shar, la porta d'ingresso occidentale verso Kabul.

Proprio su queste rocce i talebani hanno aperto la strada alla conquista, senza sparare un colpo, della capitale. Maulawi Ahmad schiera i Ranger, i suoi uomini migliori dell'armata Brancaleone talebana. Armati fino ai denti, riempiono il cassone posteriore dei fuoristrada verdi della polizia, che sventolano la bandiera bianca con i versi del Corano in nero, vessillo dell'Emirato.

A guardarli da vicino sono tutti ragazzotti che si infilano gli occhiali a specchio di taglio occidentale o si dipingono gli occhi con il rimmel senza imbarazzo. Molti usano le ciabatte da mujaheddin fin dai tempi dell'invasione sovietica, ma i più giovani amano le sneaker. I talebani hanno abbandonato il kalashnikov e sfoggiano fucili mitragliatori americani M-4 nuovi di zecca, razziati negli arsenali delle forze governative. In tutto 70.000 uomini, da soli non riescono a controllare l'intero Paese. A Kabul hanno schierato le forze migliori, le brigate Badri e Fatah, equipaggiate alla Rambo con uniforme mimetica, ginocchiere, giubbotti anti proiettili, elmetto da corpi speciali con visore notturno.

Al bazar, dove si tasta il polso della popolazione, le donne disinvolte degli ultimi 20 anni di missione Nato sono tutte coperte dalla testa ai piedi. Prima dell'Emirato si fermavano a parlare con i giornalisti. Adesso scappano. Solo incontrandole di nascosto, si sfogano: «Vivo in un incubo. Prima uscivo senza problemi, ora devo pensare a come coprirmi. Abbiamo perso tutto».

La giovane giornalista afghana che abbiamo formato in Trentino si sente «abbandonata, lasciata indietro dall'Occidente». Il suo nome, che non pubblichiamo per motivi di sicurezza, era inserito nelle liste di evacuazione, ma non è riuscita a raggiungere lo scalo di Kabul per il ponte aereo.

Vent'anni dopo le Torri gemelle Said Mohammad, venditore di spezie nel bazar, non ha dubbi: «L'11 settembre? È quando l'America ha lanciato due aerei contro dei grattacieli per giustificare l'invasione dell'Afghanistan e scatenare un bagno di sangue». Agli incroci spuntano come funghi i venditori di stendardi dell'Emirato islamico. Pochi comprano la nuova bandiera, ma uno degli ambulanti ammette: «Non me ne frega nulla dei talebani. Vendo le bandiere perché sono povero».

Lo slogan vittorioso dei talebani, «Zanda bad Emirate islami», lunga vita all'Emirato islamico, è insidiato dalle coraggiose donne di Kabul che scendono in piazza gridando «Lunga vita alla democrazia!». Le manifestazioni vengono disperse a fucilate in aria quando non ci scappa il morto. E scatta la caccia al giornalista per sequestrare le immagini.

Forse i cortei non sono del tutto spontanei. Fra i manifestanti si parla di pagamenti in denaro per appoggiare la resistenza anti talebana di Ahmad Massoud, ridotta agli sgoccioli nel Panjshir. Nella valle non più invitta si incrociano i resti dei blindati inceneriti dall'alto - forse da droni pachistani - in sostegno ai talebani. E l'Italia ha venduto i velivoli senza pilota a Islamabad.

Se le bancarelle del bazar sono piene di ogni ben di Dio, che viene dal Pakistan, la gente non ha soldi per comprare e crollano le vendite di nan, il pane afghano simile alla crosta della nostra pizza. «Non abbiamo soldi perché le banche limitano i prelievi a 200 dollari per famiglia. La popolazione è inferocita» spiega con tono acceso Mohammed Taher. Assieme a centinaia di afghani è in fila da ore davanti alla banca Azizi per ritirare i pochi soldi autorizzati. Le riserve valutarie del Paese sono state congelate negli Stati Uniti e il nuovo ministro dell'Economia, Qari Din Hani, che nessuno conosce, e più avvezzo al fucile che ai conti. I dipendenti pubblici, che non ricevono lo stipendio, stanno a casa, anche per paura di venire epurati. Così i ministeri non funzionano.

Il mondo alla rovescia dei talebani ha imposto di dividere con una tenda maschi e femmine alle università e separare i docenti. Anche lo sport femminile è a rischio e hanno dovuto chiudere i negozi di abbigliamento per donne della famosa cantante afghana Aryana Sayeed, fuggita all'estero. Agli uomini viene «consigliato» di farsi crescere la barba «perché lo prescrive la religione e bisogna dare l'esempio ai giovani».

L'assurdo è l'oscuramento con vernice nera delle vetrine dei saloni di bellezza che proponevano donne attraenti e truccate con splendide acconciature. Zainab, nome di fantasia di un'estetista, che con un appuntamento alla James Bond ci fa entrare nel salone, spiega sconsolata: «Abbiamo paura. I talebani possono chiudere il centro di bellezza da un giorno all'altro». Un piccolo mondo di rossetti, smalto per le unghie, trattamenti per i capelli, che dietro le tende tirate del salone resiste, con tanta paura, al nuovo corso.

Dall'altra parte dell'Afghanistan, a Herat dove le truppe italiane si sono ritirate a fine giugno dopo 20 anni di missione, veniamo accolti all'aeroporto da ufficiali dell'esercito afghano con la divisa immacolata, che sono passati dalla sera alla mattina con i talebani. Uno ci saluta con un perfetto «Buongiorno».

In qualche assurda maniera si sparge la voce che siamo «una squadra di evacuazione» per i tanti interpreti e collaboratori dell'Italia rimasti indietro. In albergo è una processione di vigili del fuoco di Herat addestrati dagli italiani, tecnici dell'aeroporto che lavoravano con la Nato e traduttori delle nostre truppe in cerca di aiuto per scappare dal Paese.

A Kabul abbiamo incontrato afghani in fuga veramente a rischio. La donna soldato che i talebani sono andati a cercare a casa era stata minacciata anche prima come rappresentante della politica gender nel corpo d'armata di Herat. «Se mi prendono sono morta. Dovete aiutarmi» afferma. Un interprete, che non è riuscito a raggiungere l'aeroporto, sottolinea: «Preferisco dormire per strada in Italia piuttosto che venire decapitato in Afghanistan».

Il comandante Mohammed Esrael, responsabile dell'aeroporto di Herat, giura che «l'amnistia decisa dall'Emirato riguarda pure i collaboratori delle forze di occupazione straniere. Non gli verrà torto un capello». Molti afghani non si fidano e vorrebbero fuggire. Ma il fondato sospetto è che fra quei 5.000 afghani che hanno veramente diritto alla protezione e all'evacuazione in Italia, siano riusciti a infilarsi anche parenti e amici.

Il comandante Esrael ci fa entrare a Camp Arena, il quartier generale italiano saccheggiato e distrutto. Neanche la cappella è stata risparmiata e gli integralisti hanno girato un comico video mentre utilizzano la palestra, ma pure l'attrezzatura sembra sparita nel nulla. Il talebano della prima ora lancia una sorprendente proposta agli italiani: «Riconciliamoci. Noi non cerchiamo vendetta. Tornate per ricostruire assieme il Paese».

Altre basi dagli italiani sono state conquistate lungo l'autostrada per l'inferno che porta verso Kandahar, come veniva chiamata dalle truppe italiane per le trappole esplosive. Ad Adraskan, dove c'erano i carabinieri, il comandante Amrullah, barbone nero come il turbante, sostiene di «aver combattuto per anni contro i soldati italiani. Abbiamo piazzato trappole esplosive per far saltare in aria i vostri blindati. E attaccato questa base con razzi e colpi di mortaio». A Bala Baluk, più a sud, base Tobruk è un cumulo di macerie. Haji Ekmad, veterano del primo Emirato, racconta quando «lanciava le macchine minate contro gli italiani».

I talebani, però, non sono un monolite. Un pericoloso braccio di ferro è in corso fra i pragmatici guidati dal vicepremier Abdul Ghani Baradar e i duri e puri del clan Haqqani fondatori dell'omonima rete terroristica. Lo scontro all'interno del governo avrebbe provocato una scazzottata e il ferimento di Baradar. Il rischio è che esploda una guerra civile alimentata dalle faide interne.
Per Alberto Cairo, veterano della Croce rossa internazionale a Kabul, i nodi arriveranno presto al pettine: «Prima mi chiedevano aiuto due-tre persone al giorno, ora sono dieci. Con l'inverno alle porte, il Covid che non demorde e il disastro economico, se vengono a mancare gli aiuti dall'estero il crollo dell'Afghanistan sarà inevitabile».









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