“Mi è venuto spontaneamente di chiedermi come mai dopo gli anni ’60 si sono interrotti i tassi di crescita e, come mi disse un amico, il giocattolo si è rotto”, ha detto oggi il presidente del Consiglio Mario Draghi nel suo intervento all’assemblea annuale di Confindustria. Il presidente del Consiglio ha provato a darsi una risposta: “Le mutazioni del quadro internazionale, Bretton Woods, il prezzo del petrolio, due guerre, la grande inflazione, hanno cambiato il quadro internazionale, ma anche in questo quadro così difficile alcuni Paesi hanno affrontato gli anni ’70 con successo e una caratteristica che separa gli altri Paesi dall’Italia è il sistema delle relazioni industriali che lì sono state buone, mentre da noi col finire degli anni ’60 si è assistito alla totale distruzione delle relazioni industriali. Perciò insisto su questo, perché niente è più facile che nel momento in cui il quadro cambia, le relazioni vadano particolarmente sotto pressione e invece bisogna essere capaci di tenerle”.
Sì e no. È vero che negli anni ’70 le relazioni industriali italiane erano estremamente conflittuali. Fino ad allora i sindacati si erano mossi in uno scenario di quasi piena occupazione, avendo così gioco facile nell’ottenere aumenti degli stipendi. Nel 1969 strapparono un incremento retributivo addirittura del 19%. Poi sviluppi sulla scena internazionale infrangono lo stato di grazia del mercato del lavoro. Tra i grandi paesi europei forse solo la Gran Bretagna raggiungeva temperature così alte in fatto di rapporto tra imprenditori e lavoratori. A rendere più drammatica la situazione italiana c’è il terrorismo, sono gli anni in cui le Brigate rosse colpiscono a ripetizione e a insanguinare il paese contribuiscono anche attentati di matrice opposta, neofascista. Nel maggio 1978 viene ucciso Aldo Moro, ex presidente del Consiglio ed ex segretario della Democrazia cristiana.
Qualcosa di simile accade in Germania dove si muove la banda Baader Meinhof che nel 1977 arriverà ad assassinare il presidente degli industriali tedeschi Hanns-Martin Schleyer. Tutte le economie del mondo sono alle prese con le conseguenze della crisi petrolifera innescata dalla guerra arabo-israeliana dell’ottobre 1973. Ce ne sarà una seconda nel 1979 causata della rivoluzione iraniana. Gli Stati Uniti alle prese con le gigantesche spese della guerra in Vietnam non riescono più a sostenere i valori del dollaro e nell’agosto 1973 Richard Nixon annuncia a sorpresa l’addio al sistema dei cambi fissi. Tra il 1950 e il 1973 il tasso medio di crescita in Europa occidentale era stato del 4,7%, nei paesi del Sud Europa del 6,3%. Nel ventennio successivo, come ricostruisce lo storico Ian Kershaw nel suo “L’Europa nel vortice”, i ritmi della crescita si dimezzarono. Scesero al 3,1% nell’Europa meridionale e al 2,2% nella fascia continentale. La crescita frena e l’inflazione corre, in Italia arriverà a superare il 17%.
Come si colloca l’Italia nel quadro complessivo? Nel 1973, nel 1974 e nel 1976 l’Italia cresce più di Francia, Germania Ovest e Gran Bretagna. L’anno migliore è il 1976 quando il Pil sale del 7,1% recuperando il calo del 2,1% dell’anno prima. Sono valori vicini ai tassi della Spagna che è però un paese arretrato e quindi, nonostante la cappa della dittatura franchista, gode di una sorta di “effetto agganciamento”. Un po’ quello che accade oggi ai paesi emergenti. L’Italia si colloca un po’ a mezza via tra questi due mondi. Questo giustifica, in parte, tassi di crescita mediamente più sostenuti. Nel 1978 il Pil italiano sale del 3,2%, più della Germania. Nel 1979 è, di nuovo, il paese più veloce del quartetto. Una leadership confermata nel nel 1980 e, di nuovo, nel 1984. Nel 1980 i potenti sindacati metalmeccanici italiani vengono sconfitti dalla tattica aggressiva della dirigenza Fiat che riceve il sostegno di una larga fetta di quadri e impiegati dell’azienda.
Gli anni 80 sono caratterizzati dallo sprint inglese. A guidare la Gran Bretagna li paese c’è Margaret Thatcher che spinge sulla svolta neoliberista e va allo scontro duro con i sindacati uscendone vittoriosa (gli iscritti ai sindacato britannico di minatori vede ad esempio dimezzarsi i suoi iscritti). C’è anche, e forse soprattutto, la messa in funzione, nel 1976, dei giacimenti petroliferi scoperti nel mare del Nord che portano soldi e mettono Londra al riparo dalle tensioni sui mercati delle materie prime. Dopo Londra c’è però Roma. Il Pil è spinto anche da un massiccio ricorso alla spesa pubblica ma sta di fatto che tra il 1984 e il 1988 il nostro paese sarebbe cresciuto più di Francia e Germania.
L’Italia sarebbe cresciuta di più e meglio se le relazioni tra lavoratori e imprese fossero state più armoniose? Possibile, probabile. Ma i sembrano essere determinata in maggior misura da altri fattori, per lo più esterni al paese. Nel 1993 viene siglato l’accordo che pone fine al meccanismo della scala mobile per cui gli aumenti salariali sono agganciati all’inflazione. Un sistema che tende a creare un circolo vizioso e a far levitare il caro vita. È l’inizio della cosiddetta concertazione tra governo, imprese e sindacati che favorisce una distensione delle relazioni industriali. L’inflazione scende ma i ritmi della crescita del Pil non segnalano particolari guizzi. Economicamente l’Italia non è insomma “storia a parte” rispetto ad altri pezzi di Europa, come invece sembrano lasciar intendere le parole di Draghi. Di sicuro, negli anni ’70 e ’80, man mano che il potere dei sindacati evapora, e così la loro forza contrattuale, la quota dei redditi da lavoro in rapporto al Pil continua a scendere. Una tendenza comune a tutti i paesi occidentali e da allora mai più arrestata.
L'articolo Draghi inciampa sulla storia economica: i dati non confermano la tesi secondo cui la conflittualità italiana ha frenato il Pil più che altrove proviene da Il Fatto Quotidiano.