Dopo la vittoria di Botvinnik la Pravda titola: “La brillante vittoria di Botvinnik è una vittoria della nostra cultura socialista, di cui gli scacchi sono parte integrante.”
E la Confederazione dei lavoratori lancia lo slogan: “Insegniamo gli scacchi ai lavoratori. Essi (gli scacchi) sono un’arma potente per lo sviluppo della cultura intellettuale.”
Tale propaganda non fallisce il proprio obiettivo.
Dieci anni dopo infatti, si conta, in Unione Sovietica, un milione di giocatori attivi, tesserati, in grado i competere in tornei agonistici.
Il numero e la qualità dei tornei competitivi si è sviluppato altrettanto velocemente.
Si organizzano Tornei competitivi per giovani, per il gentil sesso e le Armate; dappertutto: in villaggi, nelle città, nelle Repubbliche sovietiche, nei kolkhoz.
Si può dire che ogni scacchista o aspirante tale, trovava la manifestazione che faceva al caso suo.
Botvinnik appariva agli occhi della gente comune come il perfetto rappresentante del superiore sistema socialista-sovietico che si instaurava in contrapposizione a quello borghese decadente.
Mikhail Tchigorin, padre spirituale di tutti i giocatori sovietici fu elevato al rango di eroe nazionale.
Condannata la concezione del gioco di Steinitz, giudicata troppo conformista; e dovettero trascorrere più di trent’anni perché fosse ufficialmente riconosciuto dalle autorità scacchistiche sovietiche la genialità del gioco di un Lasker; Capablanca; o di un Nimzovitsch.
Quanto ad Alekhine, sempre dalle autorità sovietiche ne fu riconosciuto il valore ancora più tardi negli anni e facendo però tabula rasa del suo burrascoso passato.
Bisognò poi attendere il periodo post-staliniano perché l’intelligentsia degli scacchi riconoscesse il valore dei campioni del mondo occidentale: Kotov membro influente del partito e grande maestro ebbe a dichiarare “esprimiamo il nostro fascino e riconosciamo il valore anzitutto per Tchigorin e Alekhine perché sono più vicini ai nostri cuori ma noi studiamo assiduamente e sistematicamente anche l’eredità scacchistica lasciataci da eminenti genii quali E. Lasker; R. Capablanca… ed altri.”
Un passo indietro nel tempo. Nel 1925, Capablanca in visita in URSS concede una simultanea a giovani studenti, tra essi il giovanissimo Botvinnik appena quindicenne che – unico – vince la sua partita e Capablanca, nel tendergli la mano, gli auspica un grande avvenire scacchistico e… non sbaglia certo la previsione…
Nel 1927 Botvinnik inizia gli studi al Politecnico di Leningrado per diventare ingegnere.
Nelle previsioni il corso di studi è di sei anni e Botvinnik trova modo di rispettare tali termini pianificando le due attività- studi e scacchi – e dedicando a ciascuna 6 mesi l’anno.
In tal modo concilia le due diverse esigenze.
Queste due gravose incombenze non gli impediscono tuttavia, in quegli anni, di partecipare e vincere due volte il campionato URSS.
In tutta la sua vita Botvinnik porta avanti con successo sia la sua attività professionale che quella scacchistica.
Niente improvvisazioni.
Nel suo libro di partite commentate, Botvinnik si lascia andare a una autocratica dicendo che il suo gioco tattico lascia a desiderare; e che difetta di visione combinatoria.
Metodico, ama organizzare ogni evento che gli si prospetta nella vita e la pausa semestrale, quella cioè che dedica esclusivamente agli studi, trova che sia un gran bene perché gli risveglia l’appetito scacchistico attenuato da quei cinque o sei grandi tornei giocati di seguito e appena conclusi.
La sua grande forza scacchistica consiste anzitutto nella profonda comprensione della strategia.
Egli studia le aperture in una maniera differente rispetto gli altri grandi giocatori dell’epoca; non cerca sulla scacchiera la mossa, il colpo a sensazione: ma dei “piani di gioco”.
Grande esperto di finali ne vince molti valorizzando quelli che eminenti avversari considerano piccoli e insignificanti vantaggi posizionali.
Nel corso della sua carriera agonistica non ha praticamente mai fatto sacrifici sconvolgenti e/o squilibranti il gioco degli avversari. No. I suoi avversari venivano sottoposti, scacchisticamente parlando, a una “morte lenta”, un degrado (della posizione) ineluttabile Tant’è che alcuni di essi abbandonavano la partita per non subire una fine lenta e inesorabile , senza con questo aver ancora perduto materiale.