Napoleone e l’Italia, Napoleone e gli italiani, la Storia d’Italia e il Bonaparte: un nodo irrisolto, che si sarebbe potuto approfondire meglio in questo 2021, duecentesimo anniversario della morte dell’imperatore, che è stato invece fagocitato dalle celebrazioni dantesche. Fu dolce o acerbo il frutto dell’albero della libertà rivoluzionaria che egli fece assaggiare agli italiani? E come e quando il Liberatore divenne il Tiranno traditore?
Proveremo a capire tutto questo raccontando le tre discese al di qua delle Alpi di Bonaparte: quella del 1796, quando si rivelò al mondo con una delle campagne militari più incredibili della storia; quella del 1800, quando forzò il Gran San Bernardo sulle orme di Annibale, dopo aver chiuso il sipario della rivoluzione; quella del 1805, incoronato imperatore ma portatore, con una delle sue tante contraddizioni, di una nuova, rivoluzionaria, idea di Stato.
«Vi porterò nelle pianure più fertili del mondo» promise il ventiseienne generale all’atto di entrare nella Penisola nella primavera del 1796 ai suoi ufficiali, molti dei quali più vecchi di lui; «grandi province, grandi città saranno in vostro potere: vi troverete gloria, onore e ricchezza». Molti si sono chiesti se Bonaparte, la cui vita è conosciuta quasi minuto per minuto, avesse già chiaro sin dall’inizio il suo disegno di gloria e potere, ma la risposta rimane in sospeso. Dopo aver posto fine al Terrore ghigliottinando i suoi capi, il Direttorio, che aveva sostituito il governo giacobino, stentava a stabilizzare il Paese. C’era bisogno di uomini d’ordine e Napoleone, giovane militare di carriera, si era messo in luce durante la rivoluzione giacobina, prima, e nella nuova Francia della reazione termidoriana, dopo. Nella guerra contro le potenze europee coalizzate, che volevano evitare che la pandemia della rivoluzione contagiasse il continente, c’era un disperato bisogno di ufficiali come quelli cresciuti nelle scuole militari d’antico regime.
La sua nomina a capo dell’armata d’Italia nella primavera del 1796 sembrò quindi abbastanza naturale ma i 30 mila uomini male equipaggiati che gli furono messi a disposizione rivelano come il Direttorio volesse semplicemente tenere occupata Casa d’Austria e nemmeno per idea scatenare un’altra rivoluzione alle porte della Francia. Del tutto inaspettata fu, così, la collana di strepitose vittorie sugli austriaci e i loro alleati che portò Bonaparte, tra 1796 e 1797, a far cadere i vecchi Stati del nord-Italia come un castello di carte: entrò da liberatore a Milano, rovesciò i sovrani di Emilia e Toscana, tolse al papa Bologna e la Romagna e nel maggio 1797 raccolse i resti della millenaria Serenissima che gli si consegnò nelle mani. Soprattutto, l’arrivo del generale, che si diceva italiano prima che còrso, istigò i cosiddetti “giacobini italiani”, i sostenitori di estrazione intellettuale e borghese che acclamarono l’arrivo della grand armée. Anche se l’esercito rivoluzionario poco nulla aveva ormai a che vedere con i principi del 1789, e meno che meno con le idee ultrademocratiche del giacobinismo: saccheggiava e violentava come un esercito qualsiasi. Liberandoli dai loro vecchi prìncipi, Bonaparte fece balenare nei giacobini italiani il sogno di un’idea che circolava da secoli, l’unità d’Italia. Ma per Bonaparte “liberare” l’Italia significava tutt’altro: in primo luogo rimpolpare l’esausto erario rivoluzionario svuotando le troppe corti italiane di denari e opere d’arte che contenevano - i cavalli di bronzo di San Marco, i Raffaello e i Correggio, i manoscritti di Galilei e Leonardo, gli incunaboli della Marciana -. L’attenzione per lo scacchiere italiano era poi dovuta al fatto che egli reputava lo scenario mediterraneo quello su cui si sarebbero giocate le sorti del conflitto europeo che egli già prefigurava, e che aveva nell’Inghilterra, e non nell’Austria, il suo principale nemico. Liberare l’Italia significava, insomma, scatenare la rivoluzione e nel contempo tenerla sotto controllo, con quell’abile gioco di perseguire gli opposti che lo contraddistinse per tutta la vita.
A nord del Po venne fondata la Repubblica Cisalpina, a sud quella Cispadana. A Roma le baionette francesi scacciarono il Papa e instaurarono una Repubblica e di lì si spinsero riuscendo nell’impresa più dirompente e velleitaria: scacciare i Borboni da Napoli. Nelle “repubbliche consorelle”, così furono chiamate, i giacobini italiani importarono le novità della rivoluzione: l’eguaglianza dei cittadini (maschi) e la fine delle discriminazioni contro gli ebrei, l’abolizione della feudalità, una politica riformatrice e laica. Una ventata di libertà e modernità destinata a durare molto poco, ma che ebbe un significato sul quale gli storici si dividono da due secoli: fu, quello gettato dal Liberatore d’Italia, il seme dal quale sarebbe nata la pianta del Risorgimento e l’atto istitutivo di un nuovo ordine politico, sociale ed economico? Oppure si trattò solo di cinico calcolo, come a proposito del trattato di Campoformido, con il quale Veneto, Istria e Dalmazia furono cedute all’Austria in cambio dei territori a sinistra del Reno e delle isole Ionie? Il foscoliano “sacrificio della Patria nostra” aveva però, anch’esso un risvolto nascosto, come in tutto quanto riguarda Napoleone, Giano bifronte. Con il trattato egli ottenne infatti per la prima volta, da parte dell’imperatore, il riconoscimento di uno Stato rivoluzionario, un fatto di un’importanza straordinaria. E poi il governo austriaco sul Veneto e sul Friuli avrebbe avuto vita breve, sette anni. Ancora meno, però, durarono le repubbliche giacobine.