Due storie che si somigliano, due destini paralleli che s’incrociano, due personaggi che ti fanno sentire meglio in un calcio ridotto nello stato pietoso in cui oggi si dibatte. Claudio Ranieri, insieme con Andrea Pirlo e Stefano Pioli, è nella terna di candidati per il Premio Gentleman Fair Play 2021 dedicato a Gigi Simoni, uomo perbene e allenatore vincente (record di promozioni in A) scomparso un anno fa. Un premio voluto dal presidente di serie B, Mauro Balata, e votato dai venti allenatori cadetti che hanno scelto i venti tecnici della massima categoria. Simoni e Ranieri, un emiliano di Crevalcore e un romano del quartiere Testaccio, così lontani e così vicini. Identiche le origini (entrambi i loro padri avevano esercitato il mestiere di macellaio), simile il loro approccio alle partite e il modo elegante di dirigere le squadre in panchina, medesima la sottile ironia al confronto della volgarità esibita da tanti tecnici di successo durante e dopo i novanta minuti. E con una particolarità che oggi appare un segno del destino: Ranieri inizia a giocare nell’anno in cui termina Simoni. Anzi, l’ex terzino debutta in serie A proprio contro l’allora capitano del Genoa.
4 novembre 1973, Manlio Scopigno, il tecnico filosofo le consegna la maglia numero 2 della Roma che va in campo a Marassi contro il Genoa. Nel suo debutto in A trova sulla sua strada Gigi Simoni, capitano e numero 10 del Grifone. I rossoblù vincono 2-1 e a segnare il gol della vittoria è proprio Simoni. Non è che per caso quel giorno lo marcava lei?
«L’esordio in A con la maglia della squadra del cuore non si può dimenticare. È il sogno che diventa realtà. Ma per assurdo di quel debutto ricordo il giorno dopo. Perché i cronisti dell’epoca, nelle pagelle, mi massacrarono. I giudizi furono negativi perché, secondo gli schemi di allora, ero io il marcatore di Simoni. In realtà, e me lo disse Scopigno a fine gara, feci una buona prestazione e non avevo responsabilità dirette sulle reti del Genoa. La Roma attraversava un momento-no: quella fu la terza sconfitta di fila e, tra l’altro, Simoni venne premiato con i voti dei giornalisti come migliore in campo. Quando Gigi è mancato, quella partita è stata la prima cosa che mi è ritornata in mente».
La sua carriera di calciatore è proseguita a Catanzaro, Catania e Palermo mentre nel frattempo Simoni iniziava la sua ascesa in panchina. Nelle quattro sfide in A Simoni ha vinto tre volte certificando nell’aprile 1984 la retrocessione degli etnei in B?
«Se ci pensa bene io e Gigi abbiamo in comune anche la prima promozione. Stagione 1975-76, io difensore del Catanzaro guidato da Di Marzio e lui capo allenatore da inizio stagione con il Grifone. In quel periodo e per buona parte della nostra vita ci siamo identificati in quei due club dove abbiamo trascorso un decennio delle nostre esistenze sportive. Ricordo sfide sempre accese dove era proibito tirare indietro la gamba. Si davano e si prendevano, ma tutto finiva lì sul campo o all’ingresso degli spogliatoi. Lealmente ci si dava la mano e l’appuntamento alla prossima sfida. Quel calcio ha forgiato il mio spirito che poi ho cercato di trasmettere alle mie squadre compresa la Sampdoria dell’ultimo anno e mezzo: dare sempre tutto, dall’inizio alla fine, rispettando l’avversario senza averne paura».
8 settembre 1985 all’Olimpico con la maglia del Palermo inizia la sua ultima stagione da calciatore in serie B. E sulla sua strada c’è di nuovo Simoni che siede sulla panchina della Lazio e come all’inizio della sua storia in campo lui s’impone, stavolta in panchina, sempre per 2-1. Maturò quell’anno la sua decisione di intraprendere la carriera di allenatore?
«Alla panchina sono arrivato partendo dal basso. Nel 1986 in Interregionale con la Vigor Lamezia. Poi in C1 con il Campania Puteolana e poi l’approdo, sempre in terza serie, al Cagliari dove in due anni siamo arrivati in A e abbiamo conquistato una salvezza sulla quale nessuno avrebbe scommesso una lira perché allora c’erano le lire. Senza quelle esperienze non ci sarebbe stato tutto il resto, Leicester compreso. Quando ho iniziato la mia carriera di allenatore ero solo: io e Giorgio Pellizzaro, amico di una vita ed ex portiere del Catanzaro e preparatore dei numeri uno. Lo stesso percorso di Simoni che formava con Sergio Pini, suo ex compagno a Firenze e Mantova, una coppia indissolubile. Rapporti veri, autentici, che durano tutta la vita. In quegli anni si faceva tutto in autonomia: dalla preparazione ai filmati amatoriali sugli avversari con le immagini Rai da far vedere alla squadra con le videocassette. Che tempi eroici, una scuola di formazione importante che ti portava a cercare ogni giorno qualcosa di più. Sono orgoglioso di quella gavetta come, ne sono sicuro, era orgoglioso anche Gigi».
Da allenatore ha sfidato sei volte in campionato mister Simoni e ha superato il maestro vincendo tre volte con la Fiorentina e pareggiando altrettante senza subire gol contro la Cremonese. Il suo debutto in B da allenatore sulla panchina del Cagliari avviene contro il Cosenza di Simoni avviene il 10 settembre 1989. Stavolta finisce a reti bianche. Cosa le disse, lui veterano che l’aveva vista debuttare nel calcio?
«Le parole precise non le ricordo. Ma era un incontro tra due persone che si stimavano a prescindere dal fatto che entrambi volevamo vincere. La Cremonese di Simoni era una gran bella squadra. Lui in quella città ha segnato un ciclo, l’ha portata nella storia e ha lanciato tanti giovani. Gigi aveva un suo metodo, una sua filosofia calcistica, ma anche lui era sempre aggiornato e ha sempre cercato di restare al passo con i tempi e con i cambiamenti dello sport. Io ho avuto la fortuna di essere allenato da maestri come Helenio Herrera, Nils Liedholm, Carlo Mazzone, Manlio Scopigno e Gianni Di Marzio e credo sia normale in tutte le professioni “rubare” qualcosa a colleghi più esperti. L’importante è apprendere e non copiare. Apprendere vuol dire studiare, arricchire il proprio bagaglio, adattare qualcosa che hai visto e che ritieni utile al tuo metodo, al tuo credo calcistico. Copiare non ti dà credibilità che poi è la qualità principale in questo benedetto mestiere. Oggi devi dire e chiedere qualcosa a un gruppo di calciatori, oggi molto più numeroso di ieri, con teste, culture, lingue e mondi diversi che devono andare tutte dalla stessa parte».
Lei è nel calcio da cinquant’anni: come si pone davanti a un ambiente profondamente cambiato e che appare sempre più lontano dagli sportivi e tifo autentico e genuino?
«In mezzo secolo è il mondo che è cambiato e non solo il calcio. Il fattore economico è diventato predominante in tutti i settori e quello che è diventato il nostro sport è solo una logica conseguenza. Credo però che la passione dei tifosi non è cambiata e non cambierà mai. La SuperLega europea sembra tramontata, mi auguro definitivamente, perché i tifosi si sono ribellati vedendo che stavano distruggendo i loro sogni quelli in cui Davide batte Golia e sono loro che hanno costretto a muoversi in questa direzione anche la politica e non solo le istituzioni calcistiche. La dimostrazione che il tifoso vero è vigile, è attento, è pronto ad alzare la voce a chi manca di rispetto allo sport. E i tifosi sono la componente che manca tantissimo».
Qual è il ricordo più bello di Simoni, l’immagine che porta sempre con sé.
«Dal 1997 al 2005 sono stato lontano dall’Italia. Ho allenato in Spagna (Valencia, Atletico Madrid) e in Inghilterra (Chelsea). Ero al Valencia quando Simoni arrivò all’Inter e ricordo quella corsa in mezzo al campo dopo l’arcinoto episodio del rigore su Ronaldo in Juventus-Inter. In quella corsa, di allenatore solitamente posato, c’era tutto. Non voglio giudicare l’episodio, il periodo, quello che è successo o non è successo. Rivedo quel gesto, quella reazione insolita per il personaggio: l’ho sempre interpretata come la difesa umana di un sogno, la vittoria dello scudetto che sentiva di meritare per tutto quello che aveva fatto in carriera e che invece stava vedendo sfumare. Fortunatamente pochi giorni dopo poté alzare al cielo la Coppa Uefa a Parigi. Simoni ha vinto tanto e lo ha sempre fatto senza scorciatoie basandosi solo sulla forza delle sue idee».
Simoni ha vinto in Europa, lei la Premier League con il Leicester. Eppure, nonostante le vittorie e il successo, siete sempre rimasti modesti usando l’arma dell’ironia senza mai esasperare i toni. Simoni perse le staffe in quel Juventus-Inter del 1997, c’è un momento simile nella carriera di Ranieri?
«In realtà negli spogliatoi e negli incontri privati con i dirigenti e i calciatori ho perso le staffe più volte di quanto si racconti in giro. Certo, sempre in privato, perché nel nostro lavoro abbiamo un ruolo pubblico e quando parliamo ci ascoltano milioni di persone. Per carità, ci sta poi che ogni tanto ci scappi una frase sbagliata, una dichiarazione forte, polemica, però l’attenzione educativa non può mai mancare. L’ironia poi fa parte di ognuno di noi. Io, da romano, sono cresciuto fra le battute che stemperano e non offendono. Simoni era della provincia di Bologna e ha poi vissuto per venticinque anni in Toscana dove l’ironia è l’anima di tutta la regione». —
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