Erano stati indagati per istigazione a delinquere dopo avere postato foto e filmati sui social
UDINE Il caso fece tanto discutere. Anzi, per giorni non si parlò d’altro. Dibattevano tutti: mamme, insegnanti, politici, attivisti, indistintamente uniti da un moto incondizionato di sdegno. E lo facevano dappertutto: sotto l’ombrellone, al bar, attraverso gli organi di stampa, sul web e addirittura ai consigli comunali. Una condanna unanime eretta a giudizio universale. Finché, a portare un minimo di tregua a tanta animosità, non era stata l’inchiesta giudiziaria.
La Procura di Udine aveva individuato il gruppo di otto amici che avevano ideato, condiviso ed esibito sui social lo slogan “Centro stupri” e li aveva iscritti sul registro degli indagati. Ipotizzando per tutti i reati di istigazione a delinquere e propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale. Ora, esaminata la documentazione raccolta e valutata l’assenza di elementi penalmente rilevanti nelle condotte contestate, la stessa Procura ha chiesto al gip di disporre l’archiviazione del procedimento.
Da San Daniele a Lignano
La vicenda era avvenuta in tre tempi. Il 15 giugno 2020, durante una festa di compleanno organizzata al locale “Jonny Luanie” di San Daniele, sette di loro avevano indossato t-shirt con quella scritta stampigliata sul davanti. C’era Alberto Dall’Ava, figlio del titolare Carlo, e c’erano Gianluca Vidoni, Andrea Zovatto, i fratelli Giacomo e Giovanni Minini, Luca Cristofoli e Francesco Diasparra. Tutti di buona famiglia e non più che ventenni. Il successivo 20 giugno, l’ottavo amico coinvolto nell’inchiesta, Matteo Ciotti, aveva prenotato un tavolo alla discoteca Kursaal di Lignano Riviera, chiedendo che fosse riservato al “Centro stupri”. Durante la serata nessuno aveva indossato la maglietta, ma era bastata la targhetta a scatenare l’ilarità della combriccola, formata anche da altri amici, ragazze comprese, e rinnovare così lo scempio. Il resto lo avevano fatto i social: in entrambe le occasioni, foto e filmati della scritta, esibita come un trofeo, erano stati postati. I messaggi di biasimo con cui molti giovani avevano commentato le immagini rappresentano il terzo atto della commedia: alcuni degli indagati avevano risposto con toni ed espressioni non meno riprovevoli.
Nessun rilievo penale
Considerata la delicatezza del caso, il fascicolo era stato assegnato al procuratore aggiunto (oggi facente funzioni) Claudia Danelon. Che, il 23 febbraio scorso, valutato il materiale raccolto dal personale della Digos, diretta dal vicequestore aggiunto Michelangelo Missio, tra audizioni e, soprattutto, copia delle chat e delle immagini presenti sui social e sui telefonini degli indagati, ha ritenuto di non rinvenire un feedback negativo ai comportamenti, pur riprovevoli, dei ragazzi. Non, quantomeno, nei termini di «potenzialità di rischiosità» richiesti dalla giurisprudenza ai fini della configurabilità delle fattispecie ipotizzate. Entrambe sostenibili soltanto in presenza di un «rischio effettivo» di consumazione di altri reati. Alla luce del «contesto complessivo», delle «reazioni registrate», e «del generale clima goliardico in cui si calano», nella vicenda esaminata il pm ha riscontrato semmai «un’immediata reazione contraria e dissociativa da parte dei ragazzi. Alcuni – scrive – hanno dichiarato apertamente disapprovazione, altri si sono dissociati dal nome usato per la prenotazione, sostanzialmente nessuno ha dato corso ai messaggi incriminati. Né si registrano reazioni con riguardo alla serata a San Daniele».
La posizione degli avvocati
Soddisfatte, ovviamente le difese. Ma è un altro, in questa fase del procedimento, il punto su cui l’avvocato Maurizio Miculan, che assiste cinque indagati, suggerisce di soffermarsi. «La vicenda induce a una profonda riflessione sulla portata devastante che hanno i processi mediatici, amplificati, nei loro effetti negativi, dall’immediata lesività dei social in cui tutti possono ergersi a censori, dietro l’anonimato garantito dalla rete – dice –. I ragazzi sono stati ferocemente condannati dall’opinione pubblica per reati che non hanno commesso prima ancora che un magistrato facesse le opportune indagini. Peggio ancora – aggiunge – è l’incredibile aggressione mediatica cui sono state esposte le loro famiglie, ree di essere “benestanti”, che poco e male si sarebbero impegnate nell’educazione dei figli. Si sono creati danni irreparabili a persone e aziende “responsabili” solo di lavorare e creare occupazione. Danni di cui – conclude – sarà chiesto il risarcimento nelle competenti sedi». Nel condividere le conclusioni del pm, «che ha tenuto conto del contesto in cui i fatti, comunque deprecabili, si sono verificati», l’avvocato Roberto Braida, difensore di Ciotti, si è tuttavia discostato quanto alle valutazioni sulla posizione della supposta parte danneggiata «che, per contro, si ritiene abbia concorso nella causazione del proprio eventuale danno». Per l’avvocato Federica Tosel, difensore di Diasparra, «l’epilogo non poteva che essere questo: capisco l’emotività dell’opinione pubblica – dice –, ma certi ragionamenti vanno fatti con il codice penale».