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L'ora di cambiare rotta

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Il presidente di Slow Food Carlo Petrini «Ecco perchè cucinare è un atto politico»

Carlo Petrini è il padre del movimento Slow Food, associazione attiva in 150 Paesi nata per dare voce e forza ai piccoli del cibo. Ai produttori, ai contadini, ai pescatori e agli allevatori che con fatica quotidiana portano avanti un’alimentazione fatta di tradizione, storia, cultura e soprattutto qualità. Da sempre (era il 1986 quando fondò Slow Food in Piemonte), Petrini si batte per un consumo critico, rispettoso del lavoro, dell’ambiente e degli ecosistemi.

Principi che non dovremmo avvertire lontani da noi, perché è soprattutto nei gesti quotidiani che determiniamo la differenza. E dato che piccolo – per Carlin – è buono, pulito e giusto, è bene avere la coscienza di quale ricchezza (anche economica) si celi dietro la gestualità dei lavoratori artigiani: dal biroldo della Garfagna (uno dei 25 presidi toscani) all’uva Madrasa in Azerbaijan o il formaggio di capra di Tucumàn in Kenya (sono 617 gli alimenti tutelati dal movimento di Bra nel Mondo).

Che sia anche uno degli approcci per traghettarci verso un nuovo paradigma vincente?

«Stiamo vivendo un’importante fase di trasformazione. Cosa ci sta insegnando questa pandemia? È passato un anno da quando eravamo pervasi dalla speranza un po’ ingenua e molto ottimista che tutto sarebbe andato bene, e che ne saremmo usciti migliori. A oggi, vista l’incertezza che continua a farla da padrona, ancora non mi sento in grado di fare previsioni. Ricordo le parole pronunciate da papa Francesco ad aprile 2020, “pensavamo di poter rimanere sani in un mondo malato” e mi auguro che la pandemia ci abbia insegnato almeno questo. Siamo intimamente interconnessi con gli altri essere viventi e gli ecosistemi che abitiamo, dobbiamo dunque smettere di agire come se i nostri comportamenti non avessero un impatto all’esterno. Dobbiamo passare da un predatorio parassitismo, a un benefico mutualismo.

Come reagisce al cambiamento il mondo alimentare?

«Tra i pochissimi aspetti positivi che la pandemia ha generato c’è una migliore gestione degli sprechi alimentari e il maggiore rispetto verso il cibo. Passare tanto tempo in casa, specialmente nel primo lockdown, ha fatto sì che si ricreasse con il cibo quella relazione che si stava rischiando di perdere del tutto. A livello della produzione invece gli sprechi sono aumentati e chi detiene il potere commerciale, ovvero i colossi della grande distribuzione, ha fatto in modo di giovare da questa situazione rafforzando la propria logica perversa basata unicamente sull’aggressione al prezzo. La cosa ancora peggiore è che azioni di questo tipo sono nascoste dietro a slogan sul tema della sostenibilità e del rispetto della biodiversità. Questa pandemia ha dunque sdoganato ufficialmente la pratica del greenwashing. A vantaggio dei più piccoli invece c’è stato un ritorno all’economia di prossimità, anche se molti hanno avuto difficoltà a raggiungere il consumatore dovendosi inventare forme di distribuzione alternative».

Sostenibilità ambientale e competitività economica possono dialogare?

«Non si può più parlare di sostenibilità, specialmente quella ambientale, senza cambiare approccio. Il processo di rigenerazione della nostra società passa da un cambio del pensiero rispetto allo schema classico di un’economia competitiva. La competitività dovrà lasciare spazio alla cooperazione. Il terreno di gioco della competizione sarà quello della sostenibilità. Già adesso le aziende che riescono a garantire processi o materie prime più “sostenibili” finiscono sempre di più nei carrelli dei cittadini. È una buona notizia. Ma parlare di sostenibilità con il vecchio sistema economico porterà numerose aziende, come già sottolineato prima, a pulirsi la coscienza con azioni apparentemente “verdi” con occhi puntati al profitto. Speriamo che la politica si faccia promotrice del cambiamento con iniziative legislative rivolte a tutelare l’ambiente e la biodiversità, a contrastare la crisi climatica e del lavoro, promuovere forme di produzione non invasive e non dettate solo dal profitto a breve termine».

L’agricoltura che vogliamo in risposta alla crisi del settore.

«L’imperativo dell’agricoltura del futuro è: rigenerazione a 360 gradi. Rigenerare quindi il suolo attraverso pratiche che ne aumentano la fertilità, gli ecosistemi purificandoli dagli agenti chimici inquinanti e sostituendoli con alternative naturali. Attuando una gestione più efficiente delle risorse idriche. Rigenerare la biodiversità, facendo sì che le varietà locali ritornino a essere presenti nei campi e negli allevamenti. Rigenerare le relazioni di interazione tra le specie animali e vegetali di un territorio riconoscendone il ruolo vitale nel garantire i servizi ecosistemici. In ultimo rigenerare i saperi, abbracciando la complessità e la diversità, e rigettando l’approccio riduzionista e omologato che ha la pretesa di poter funzionare sempre e ovunque. Penso che l’agricoltura di prossimità, e sottolineerei di piccola scala, condotta con pratiche agroecologiche, possa meglio adattarsi a queste istanze. Detto ciò mi auguro che anche le grandi aziende siano in grado di accogliere la sfida e di intraprendere un percorso di trasformazione del loro modo di operare».

Biodiversità: un modo di essere, di pensare, di agire universale affinché il piccolo faccia da effetto domino?

«Quello che deve penetrare nella coscienza comune è che solo l'eterogeneità, e quindi la biodiversità applicata ad ogni campo può garantire un futuro sano e sostenibile non solo all’umanità ma a tutto il nostro Pianeta. Con il progetto dell’Arca del Gusto, che oggi conta circa 5.500 prodotti da 150 nazioni, e il marchio dei presìdi Slow Food, la nostra associazione ha salvaguardato non solo i singoli prodotti alimentari, ma anche i saperi tradizionali, le comunità e di conseguenza la cultura, gli usi e i costumi. Tutta l’umanità oggi è chiamata ad applicare il rispetto della biodiversità non solo agroalimentare ma anche di pensiero, di usanze, di saperi. Ciò ha bisogno di tempo, costanza e perseveranza».

Quale ruolo può e deve avere la ristorazione nella ripresa?

«Fiore all’occhiello del nostro Paese, ha un’importanza enorme per impatto economico e sociale. Se mangiare è un atto agricolo, scegliere cosa cucinare, è un atto politico. Acquistare prodotti locali, coltivati e prodotti con rispetto per la terra, per chi lavora e gli animali, pagando un giusto prezzo ai produttori, è un gesto rivoluzionario che scombina i meccanismi del sistema alimentare globale. Attraverso un riallacciamento dei rapporti tra produttori e ristoratori è possibile salvaguardare e migliorare, non solo l’economia locale, ma anche la ricchezza della biodiversità di un dato territorio. Insomma, il dialogo produttore-ristoratore-cuoco deve essere alla base del tessuto economico e sociale di un dato luogo. I prodotti del territorio garantiscono qualità, esperienze autentiche di scoperta di aree geografiche e culture. Ma lavorare con i prodotti del territorio vuol dire stabilire relazioni dirette e continuative con gli agricoltori, gli allevatori, i piccoli artigiani locali. Significa ordinare prodotti uno ad uno invece di scorrere un catalogo, e spesso andare direttamente in azienda a ritirare la spesa, affrontare incertezze costanti. Vuol dire anche saper improvvisare, cambiare menù perché all’ultimo momento manca un ingrediente, e sapere che i propri ordini sono fondamentali per piccole economie fragili».

quali interventi anche politici ed economici è necessario mettere in campo per sostenere la buona ristorazione e con essa i soggetti da cui i cuochi si riforniscono?

«Fino a questo momento la soluzione politica ed economica adottata dal governo è stata fornire ristori per contrastare la perdita di fatturato causata dalle chiusure forzate. Ci si è però dimenticati che l’arresto di questo comparto ha scatenato un effetto domino che si è ripercosso sui fornitori, per i quali non sono state previste misure di aiuto. Quindi da un lato dovremmo sostenere l’operatività di tutte le realtà produttive virtuose (agricoltori, pescatori, allevatori) che non possono sopportare ancora per molto una contrazione delle loro vendite. Dall’altro garantire liquidità a tutti gli operatori della ristorazione e dell’ospitalità. E in questo momento, noi clienti, abbiamo il compito di non lasciarli soli».

Le sfide ambientali sembra siano al primo posto nelle priorità per aziende, istituzioni e politici. Il Green Deal e le due strategie Farm to Fork e Biodiversità; il nuovo ministero italiano della Transizione Ecologica. Un cambio di paradigma?

«Non cambiare la rotta oggi vorrebbe dire manifestare un’ottusità pericolosa: il modello capitalistico basato su consumismo e competizione ha perso la sua battaglia. Le tematiche ambientali, di sostenibilità e di salvaguardia degli ecosistemi sono entrate a pieno diritto all’interno dei Palazzi e stanno entrando nelle agende politiche, seppur con qualche difficoltà. Mi auguro che questo ministero riesca a dare voce alle linee guida presentate dalla commissione europea».

Cosa ne pensa della proposta di Bill Gates: carne sintetica per ridurre le emissioni climatiche?

«I problemi causati dagli allevamenti intensivi sono legati allo stile di vita che ci sta portando verso il baratro. Consumo esponenziale, cercando prezzi sempre più bassi che causano danni enormi ai lavoratori, all’ambiente e alla salute. Questi costi li paghiamo tutti noi. Siamo certi, però, che le soluzioni proposte non creino effetti più dannosi del problema? Dovremmo piuttosto guardare al governo del limite, ridimensionare i consumi e chiedere sempre più informazioni sulla filiera e sulla salubrità di ciò che compriamo».

Iggi si parla di resilienza, ossia la capacità di reagire ad un trauma senza farsi piegare da esso. Un tema caro a Slow Food. In concreto?

«In ambito agroalimentare la resilienza è quella qualità che possiamo portare nel nostro agire quotidiano lasciandoci contaminare dalla diversità. Diversità che per i contadini si esprime nel numero di varietà coltivate, per i trasformatori nelle diverse ricette che vengono replicate o nelle tecniche tradizionali che vengono preservate, e in ultimo per i consumatori nelle scelte alimentari che attuano. Messe a fattor comune, queste diversità contribuiscono alla creazione di un sistema alimentare più resiliente e quindi capace di saper rispondere meglio a ipotetiche sfide presenti e future».

Stiamo lasciando ai nostri figli un mondo ipotecato, un ecosistema divorato e appesantito da debiti che ricadranno sulle loro spalle. In che modo rendere il loro futuro meno gravoso?

«La questione generazionale è sempre esistita e sempre esisterà. A differenza del passato, la velocità dello sviluppo tecnologico ha creato un gap generazionale incredibile. Motivo per cui l’unico modo per rendere il loro futuro meno gravoso è quello di lasciargli maggiore spazio oggi. Di farci contaminare dai loro problemi e dalle loro sfide, anche se non li sentiamo nostri, e di coinvolgerli nella scrittura dell’agenda politica nazionale ed europea. Non ci possiamo stupire se milioni di giovani scendono in piazza per il clima e se si parla di voto ai sedicenni. Bisogna puntare su educazione e ricerca, aumentando gli investimenti pubblici. Su questo tema ho deciso di invertire provocatoriamente un detto conosciuto in tutta Italia: “Se i giovani potessero e i vecchi sapessero...». —

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