Sono usciti su Spotify i primi episodi di Renegades: born in the Usa, podcast incentrato su conversazioni tra due figure di estrazione molto diversa: Bruce Springsteen e Barack Obama. Dialoghi tra una rockstar che per diventare tale ha calcato palchi per decenni trasudando melodie e passione e una pop star a cui per diventare tale è bastato candidarsi al momento giusto alle elezioni. È lo stesso ex presidente degli Stati Uniti a rimarcare la distanza con il Boss. 

Un’amicizia improbabile 

«A prima vista – spiega Obama all’inizio del primo episodio (Outsiders: an unlikely friendship) – io e Bruce non abbiamo molto in comune. Lui è un bianco di una cittadina del New Jersey. Io sono un nero di razza mista nato alle Hawaii con un'infanzia che mi ha portato in giro per il mondo. Lui è un’icona del rock. Io sono un avvocato e un politico, non così cool. E, come mi piace ricordare a Bruce ogni volta che ne ho la possibilità, lui ha più di dieci anni più di me, anche se li porta dannatamente bene. Ma nel corso degli anni quello che abbiamo scoperto è che abbiamo una sensibilità condivisa. Sul lavoro, sulla famiglia e sull'America. A modo nostro, Bruce e io abbiamo fatto dei viaggi paralleli cercando di capire questa nazione che ci ha dato tanto. Cercando di raccontare le storie della sua gente. Alla ricerca di un modo per collegare le nostre ricerche individuali di significato e verità e comunità con la storia più ampia dell'America. Inoltre, Bruce ha belle storie da storie. Quindi abbiamo aggiunto un partecipante alle nostre conversazioni: un microfono. E nel corso di alcuni giorni nella fattoria e nella proprietà ristrutturata che Bruce condivide con la sua straordinaria moglie Patti, insieme ad alcuni cavalli, un intero branco di cani e mille chitarre, il tutto a poche miglia da dove è cresciuto, abbiamo parlato». 

Nel podcast, temi impegnati (ma non solo)

L’attuale stagione di questa seconda produzione dello studio Higher Ground di Barack e Michelle Obama prevede otto puntate con conversazioni intime su argomenti come razza, paternità, matrimonio e sui rispettivi viaggi personali e professionali, alla ricerca – come sottolineato dallo stesso 44° Potus – di «una storia americana più unificante». Fortunatamente per l’ascoltatore, ci sono anche momenti di alleggerimento e di divertimento e, almeno nelle due puntate finora pubblicate, non manca qualche spezzone musicale improvvisato dal vivo a opera di Springsteen (ce ne vorrebbero di più). 

I primi incontri tra smemorati 

Quella che viene presentata come una grande amicizia di lunga data in realtà nacque nel non lontanissimo 2008, durante la campagna presidenziale di Obama, in circostanze evidentemente non memorabili. 

«Eri venuto – dice Obama al Boss – a fare un concerto per noi. Era in Michigan o in Ohio?» 

«Non me lo ricordo minimamente», replica Springsteen, e ride. 

Non ci fu più di una chiacchierata, poi Bruce si esibì in occasione dell’insediamento di Obama e ci furono un paio di cene alla Casa Bianca:  

«Io suonavo il piano e tu cantavi», dice Bruce.  

«Non mi ricordo, ma tutti cantavamo. Musiche di Broadway. Motown. Classici».  

«È vero». 

«E c’erano libagioni. C’era da bere». 

«Sì – sghignazza Bruce – è stato bello». 

Michelle a Barack: «Impara da Bruce» 

Obama racconta che sua moglie Michelle lo stimolò a prendere esempio da Springsteen su come affrontare i propri fallimenti come uomo. 

«Dopo una cena, una festa o una conversazione, lei mi diceva “Vedi come Bruce comprende le proprie manchevolezze e ci ha fatto i conti in un modo che tu non sei riuscito a fare?”» 

«Mi dispiace…», ride il Boss 

«“Dovresti passare più tempo con Bruce. Perché ci ha lavorato su”. E lasciava intendere che avessi bisogno di essere addestrato riguardo a come essere un marito come si deve».  

«È stato un piacere…», continua a ridacchiare Springsteen. 

Obama ha provato a scagionarsi: «Sai, ho cercato di spiegarle: lui ha dieci anni più di me. È già passato attraverso alcune di queste cose. Io mi sto ancora… allenando». 

Megalomania (ed empatia) 

Nonostante provenienze e carriere così diverse, i due hanno cominciato a identificare un terreno comune. Uno di essi è quello, parole loro, della “megalomania”: sia per fare la rockstar che per fare il presidente, dice Bruce, «devi credere di avere una voce e un punto di vista che valga la pena di essere ascoltato da tutto il mondo». 

«Esatto», conferma Obama. 

«Da tutto il mondo. Quindi da un lato ti serve quel tipo di megalomania, eppure d'altra parte, perché la cosa sia autentica, per avere il tipo di impatto che abbiamo avuto, devi avere una grande empatia nei confronti delle altre persone». 

Questioni razziali e canzoni di protesta 

Nel corso del primo episodio Bruce racconta della sua infanzia sregolata a Freehold, in New Jersey, negli anni Sessanta, in un periodo segnato da tensioni razziali esplicite culminate in rivolte. Obama parla dei suoi propri primi strani anni a Honolulu, un posto diverso da tutti gli altri in cui lui era diverso da tutti gli altri. 

Il secondo episodio si apre con Obama che dice che «parlare di razza non è sempre facile. Sappiamo che colmare il divario razziale dell'America richiederà politiche concrete per affrontare il problema. Ma richiede anche che ciascuno di noi, nei nostri luoghi di lavoro, nella nostra politica, nel nostro luogo di culto e in un milione di interazioni quotidiane, faccia uno sforzo maggiore per capire le reciproche realtà. Per non parlare dei nostri atteggiamenti inespressi. Come molti di noi hanno imparato, che sia da un'infanzia come la mia, da rapporti come quello di Bruce con "The Big Man" Clarence Clemons, da grandi vecchie canzoni di protesta o da nuovi tipi di movimenti di protesta in tutto il paese. Fare i conti con tutto ciò può essere scomodo. Anche, o forse soprattutto, quando li dobbiamo fare con le persone che amiamo». 

Quando arriva il momento di alleggerire un po’, Obama chiede a Springsteen quali siano per lui le migliori canzoni di protesta. Bruce cita Fight the power dei Public Enemy, Anarchy in the Uk e God save the queen dei Sex Pistols. Obama ride e rilancia mettendosi a cantare Maggie’s farm di Bob Dylan e poi cita A change is gonna come di Sam Cooke («una canzone che riesce a farmi piangere»), Strange fruit cantata da Billie Holiday (brano campionato da Kanye West in Blood on the leaves) e Respect di Aretha Franklin: «Diceva a tutti gli uomini là fuori: “Datevi una regolata”», sottolinea l’ex presidente. La puntata termina alla grande con un accenno (troppo breve) di American Skin (41 shots) del Boss.