Il dialogo a distanza tra l'italiano Giuseppe Ar e il danese Vilhelm Hammershøi. Una corrispondenza di luce e di spazio che racconta, tra fine Ottocento e pieno Novecento, le inquietudini quotidiane e l'enigma dell'esistenza.
Di un raro e grande pittore pugliese di Lucera, Giuseppe Ar, abbiamo parlato qui, osservandone la vocazione intimistica e crepuscolare in una pittura sofisticatissima, con la qualità serica di un tessuto. Gli interni desolati, le stanze abbandonate, le presenze silenziose determinano una sospensione metafisica che nulla deve alla pittura di Giorgio De Chirico, cui pure si affianca. Diversa è la fonte per Ar, e senza che altri la condivida, come per uno spirito del tempo, nell'onda lunga del Simbolismo.
Per chi era partito con Antonio Mancini, la scelta di una pittura ritrosa e ritirata ha un significato filosofico, che va oltre l'immagine. E, nel caso di Ar, ha una insolita e rara ispirazione. Nessuno prima e meglio di lui si misurò, in modo quasi esclusivo, con un pittore oggi amatissimo, ma non frequentato negli anni Trenta e Quaranta, in piena dimensione autarchica, anche per i maestri più originali e curiosi, nell'orbita del Novecento (penso anche ai più indipendenti e onirici come Gianfilippo Usellini, Antonio Donghi, Luigi Gigiotti Zannini, Italo Cremona): il danese Vilhelm Hammershøi.
Nessun dubbio che gli interni, le stanze lontananti, le porte non sono coincidenze di ispirazione, ma evidenti derivazioni, trasfigurate in un atmosfera di colore locale pugliese. Lucera si gemella con Copenaghen. I primi dipinti di Hammershøi, con la loro semplicità e la registrazione della «banalità della vita», incrociarono i pensieri di spiriti eletti come il pittore Emil Nolde e il poeta Rainer Maria Rilke. Un'arte sommamente reticente. Gli interni dell'artista danese sono spazi della mente: la casa desolata, silenziosa e spoglia vive in un'atmosfera sospesa nel tempo. La moglie, rigorosamente di spalle, è in abiti austeri dai colori scuri, nei pressi di una finestra o di una porta. Non ne vediamo mai il volto per coltivare l'enigma. Le finestre sono quasi sempre chiuse e non lasciano intravvedere l'esterno, mentre le porte sono aperte e mostrano gli altri locali della casa. Il colore è ridotto al minimo: tonalità del bianco, del grigio, della terra con effetti di luce alternati a zone d'ombra.
L'assenza è protagonista in tutte le sue opere. C'è un altrove in Hammershøi, che è il mondo fuori della casa. Giuseppe Ar intercetta i silenzi di Hammershøi. Li porta nella provincia pugliese. Come osserva Michele Biancale, sensibile critico dimenticato: «Egli è un sottilissimo filtratore di luminosità chiare. Egli coglie in una testa di luce che si sprigiona da una porta bassa sulla stretta strada paesana, da una finestra socchiusa, da un alto abbaino, una sua misteriosa qualità. Tale luce s'impolvera nel sole, assume casti rossori da lampade o da candele su tavoli dove bimbi studiano e presso cui vecchie fanno le ultime imbastiture. O vive solitaria, come una "presenza", tale luce, come un imponderabile che riesca a colmare per sé sola il vuoto delle camere riempiendone tutto lo stampo. Ar (…) non è che un piccolo attento tessitore che, dietro il suo vecchio telaio rustico nel fondo d'una stanza ombrata, dispone l'ordito e poi con una mano paziente manda la spola che passa e ripassa assidua. Di tali orditure e di tali trame di luce è tessuta la migliore arte di Ar».
L'artista pugliese non ha mai cercato o rischiato l'illustrazione. Ha calato gli oggetti in un'atmosfera crepuscolare senza nulla concedere al sentimentalismo. E la materia della sua pittura è vibrante, delicatissima, maturata con una perizia che nessuno in questo secolo ha avuto e che va oltre i pure affini Antonio Donghi, Riccardo Francalancia, l'«odiato» Giorgio Morandi. Certo, nessuno come Ar è capace di contenere in un piccolo spazio, in un angolo insignificante, nel taglio prescelto, un'intensità così forte di sentimento e anche di materia pittorica.
La verità delle immagini, le consonanze di atmosfere in mondi così lontani, indicano una dimensione metafisica, di essenza delle cose che va oltre la descrizione degli spazi e rimandano ai grandi temi della filosofia contemporanea. La dialettica autentico/inautentico, a partire dal danese Søren Kierkegaard, si ritrova in Martin Heidegger e Karl Jaspers: «Il primo in Essere e tempo ci spiega che l'esistenza inautentica è una "fuga" davanti alla morte, mentre l'esistenza autentica è l'"essere-per-la-morte": comprendendo ed accettando la possibilità della morte come impossibilità dell'esistenza, l'uomo ritrova il suo essere autentico».
In questa dimensione avvertiamo la densità concettuale di Hammershøi e di Ar. Jaspers precisa: «L'autentico è ciò che è più profondo in contrapposizione a ciò ch'è più superficiale; per esempio, ciò che tocca il fondo di ogni esistenza psichica di contro a ciò che ne sfiora l'epidermide, ciò che dura di contro a ciò ch'è momentaneo, ciò ch'è cresciuto e si è sviluppato con la persona di contro a ciò che la persona ha accettato o imitato».
Ecco: oltre l'apparenza di quegli interni c'è una essenza che ci coinvolge, un confronto tra il nostro breve transito in quelle stanze e la permanenza in una dimensione sospesa, meglio, di attesa. Per andare oltre Hammershøi filosofo. La luce. Le cose. A questa pittura convergono i pensieri di Eugenio Montale nella sua poesia I limoni: «Vedi, in questi silenzi in cui le cose / s'abbandonano e sembrano vicine / a tradire il loro ultimo segreto, / talora ci si aspetta / di scoprire uno sbaglio di Natura, / il punto morto del mondo, l'anello che non tiene, / il filo da disbrogliare che finalmente ci metta / nel mezzo di una verità. / Lo sguardo fruga d'intorno, / la mente indaga accorda disunisce / nel profumo che dilaga / quando il giorno più languisce. / Sono i silenzi in cui si vede/ in ogni ombra umana che si allontana / qualche disturbata Divinità».