TREVISO. «Ho trovato persone che mi hanno curato con umanità dandomi un supporto morale che va oltre il dovere ma che può essere davvero definito “vocazione”». Filippo Bonaccini, 58 anni, è stato paziente del Covid Hospital di Vittorio Veneto, ricoverato nell’ala 7/A. Eppure nei giorni in cui è rimasto allettato, non si è mai sentito un “numero”. Neanche per un attimo. Ed è questo il messaggio che vuole far passare. E che per una persona ricoverata, senza la famiglia a fianco, fa la differenza.
Cosa l’ha colpita?
«La carica umana delle persone che mi hanno assistito: medici, infermieri, operatori socio sanitari, tutti quanti. È ciò che mi è sembrato più significativo, al di là dell’aspetto professionale, che uno potrebbe dare per scontato. Ma ciò che non davo per scontato è il lato umano, il fatto che non ero un numero».
Quanto è dura, secondo lei?
«Non penso sia facile e non parlo di me ma di chi sta dall’altra parte, sono situazioni pesanti, riuscire a reagire non deve essere facile, giorno dopo giorno, nemmeno per il personale. Ci sono persone che fanno questo lavoro con una vocazione vera. Un giorno ho sentito due infermiere parlare, avevano già avuto il virus, una delle due in forma pesante. Persone che ci sono passate già e che nonostante questo continuano a stare lì, in prima linea, fa pensare. Potrebbero avere un atteggiamento diverso, mantenere le distanze oppure fare il loro lavoro in modo più formale, non dico freddo. Invece non è così».
Il calore fa la differenza?
«L’umanità è importante per la persona che si trova in una simile situazione. Io avevo il telefonino, potevo sentire la mia famiglia, per carità, ma non sai cosa ti succede, hai la netta sensazione di trovarti in un frangente in cui non dipende da te, puoi solo sperare che tutto vada per il meglio»
Qual è il messaggio che deve passare?
«Non amo discorsi e retorica, ma credo sia importante esprimere un forte ringraziamento a tutto il personale sanitario che ho incontrato, medico e non. Ringraziare perché, oltre a un’assistenza attenta e di grande professionalità, ho trovato un supporto morale che va oltre qualsiasi dovere».
Soprattutto in una situazione di lavoro complessa...
«Sono condizioni difficili, sono coperti come tutti sappiamo dalla testa ai piedi, con la tensione di non sbagliare (attenti alle aree pulite, a quelle sporche, metti su il secondo paio di guanti, toglilo, mettine di nuovi per passare a un altro paziente… e così tutto il giorno, tra le mille incombenze richieste, sapendo che è a rischio anche la propria salute) non è certamente facile. Un giorno una operatrice sanitaria aveva dimenticato qualche passaggio e ricordo quanto fosse impaurita. Ma in tutto ciò trovare la forza di “tenere su” se stessi e le persone intorno. In ogni camera entrare e riuscire a offrire un sorriso o una parola di incoraggiamento, insomma a portare un po’ di calore a persone che comunque soffrono e hanno paura, rivela un’umanità che ho trovato profondamente toccante. Mi sembra di aver verificato con mano la realtà di persone che vivono con vocazione vera un lavoro che è di per sé di servizio agli altri, e nel nostro mondo fatto più di egoismi e di voglia di apparire che di slanci, questo non è poco. Grazie per quello che siete e per quello che fate».
Lei come sta ora?
«Sono ancora a casa, sono tornato giovedì sera e mi sento meglio, anche se lo dico a bassa voce. La mia forma, comunque, è stata relativamente blanda».
Come è iniziata?
«A fine ottobre era stato contagiato mio figlio, a inizio novembre ho avuto i primi sintomi, ho fatto il test rapido, poi il molecolare e sono stato trovato positivo. All'inizio non avevo disagi respiratori, solo febbre. Passati i primi giorni grazie al saturimetro ho visto che le cose peggioravano, sono andato al Pronto soccorso e mi hanno dato una cura a casa ma non funzionava, quindi sono stato ricoverato a Vittorio Veneto».
È stato utile il saturimetro?
«Nel mio caso molto. È servito a cogliere per tempo la situazione prima che degenerasse». —