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Francesco Colella: «Un artista sa donarti le parole giuste per le emozioni, quando non le trovi»

Da Uomo senza Meta, l'ultimo spettacolo con cui era in scena a Roma prima della chiusura dei teatri, ai lavori televisivi e cinematografici degli ultimi anni, fino ai progetti futuri. Primo piano sulla carriera artistica del poliedrico attore calabrese, protagonista della serie Vite in fuga, in onda dal 22 novembre su Rai1
Francesco Colella in Uomo senza meta
Francesco Colella
Francesco Colella (foto di Claudio Santamaria)
Francesco Colella (foto di Claudio Santamaria)
Francesco Colella in ZeroZeroZero
Francesco Colella in ZeroZeroZero
Francesco Colella in ZeroZeroZero
Francesco Colella nei panni di Palmiro Togliatti in Storia di Nilde
Francesco Colella nei panni di Palmiro Togliatti in Storia di Nilde
Francesco Colella nei panni di Palmiro Togliatti in Storia di Nilde
Francesco Colella in Vite in fuga
Francesco Colella in Aspromonte - La terra degli ultimi
Francesco Colella in Aspromonte - La terra degli ultimi
Francesco Colella in Quasi Natale
Francesco Colella in Quasi Natale
Francesco Colella in Quasi Natale
Francesco Colella in Trust
Francesco Colella in Trust

Quando hai la possibilità di confrontarti con Francesco Colella riesci a toccare con mano la genuinità e l’incanto che ha conservato, nonostante alcuni successi conquistati soprattutto ultimamente e gli incontri importanti (da Ronconi a Tiezzi, da Danny Boyle a Stefano Sollima). Pondera le parole e si pone in ascolto e, con l’atteggiamento di chi si mette in discussione, dichiara: «è bene che se qualcuno giudica quello che dico, non sia d’accordo oppure ritenga opinabile qualcosa che realmente ho detto». In quanto attore – anche se non tutti hanno davvero questa dote – ha il termometro della situazione, non ha timore di esprimersi, ma ci tiene a non essere frainteso e lancia una “provocazione” costruttiva: «come artisti abbiamo una voce molto più potente dei media e allora anziché prendermela coi media, chiedo a noi artisti se non siamo stati, forse, fino ad oggi, un po’ troppo timidi. “Voi avevate voci potenti / lingue allenate a battere il tamburo/”, cantava De André ne La domenica delle salme». Conosciamo meglio quest’attore, anche perché avremo sempre più modo di incontrarlo sul piccolo schermo, così come sul grande e sulle tavole del palcoscenico non appena riapriranno.

Partiamo dall’ultimo spettacolo con cui è stato in scena, Uomo senza meta (produzione Teatro di Roma), in cui il regista aveva pensato lo spazio anche tra voi interpreti a partire dal distanziamento…
«Giacomo Bisordi ha creato uno spazio nel quale far ‘viaggiare’ i personaggi. Ha voluto offrire al pubblico il palco immenso dell’Argentina svuotato e il dietro le quinte, che di solito non si vede, messo a nudo acquisisce una forza espressiva molto potente, suggerendo – come da copione – un fiordo norvegese. Nello spazio teatrale è possibile, più che al cinema, evocare qualsiasi cosa in comunione col pubblico e la sua immaginazione».

https://www.youtube.com/watch?v=50i7Xq-yHK4

Nel testo si affrontava il tema dell’individualismo spietato, cosa significa ai giorni nostri?
«Il personaggio che ho interpretato è stata una sfida molto intrigante: è un uomo ricchissimo, con delle grandi voragini di solitudine dentro, ma non riesce a guardare il vuoto che lo abita né la propria disperazione e, per non osservarla, decide di costruire un’intera città su un fiordo e di comprarsi anche gli affetti. Paga delle persone perché possano assumere il ruolo di fratello o delle due ex-mogli. Il suo desiderio d’ambizione va di pari passo con la fuga da sé stesso; ma una volta raggiunto il successo totale, che dovrebbe essere una soddisfazione per la propria esistenza…» (non aggiungiamo altro perché ci auguriamo che la pièce venga ripresa e vada in tournée!).

Sembra molto crudele
«Lo è, viene rappresentata la crudeltà e la spietatezza di un certo capitalismo».

Il giorno dell’ultima replica (25 ottobre) ha fatto un appello molto accorato dato che era stata annunciata la chiusura di cinema, teatri e sale da concerti a partire dal 26. Approfondiamo due passaggi in particolare: «il teatro e il cinema sono luoghi dove possiamo trasformare le nostre paure e i nostri dolori» e l’altro consisteva nell’invito a non chiudere la finestra ai propri sogni…
«Sono convinto che teatro, cinema, danza e musica possano aiutarci a elaborare quanto accade. La decisione ormai è presa. Il mio era un appello volto a invitare a lasciare questi presidii aperti, anche simbolicamente, anche se la gente ha paura a entrarvi; ma lasciarli aperti vuol dire dare un segno forte e potente, appunto una finestra aperta verso i sogni nonché nelle nostre esistenze che, in questo momento, vivono, nella solitudine, un dramma comune. Il problema è proprio questo: nel primo lockdown si è verificato che questo dramma collettivo ispirasse un senso di comunità e ci sono stati anche aneliti di solidarietà. Durante la seconda ondata questo dramma mi sembra che racconti altro: persone chiuse nelle proprie paure e solitudini e un senso della comunità completamente perso. Non abbiamo neanche elaborato il lutto di 35000 morti della prima ondata perché, appena hanno aperto le porte, si è creduto che la nostra vita potesse intanto riprendere, ma con un concetto di libertà assolutamente volgare, che non ha nulla a che fare con la vera libertà. La libertà costa fatica, è un vincolo, ma credere che la libertà sia: “bene, adesso comincio a fare quello che mi pare a discapito di tutto e di tutti…”. Questa è la volgarità che, a un certo punto ha cominciato a imperversare e, di conseguenza, la rimozione di quanto accaduto. Le persone continuano a morire, si può anche non voler guardare a questo, ma almeno si abbia il pudore di stare in silenzio e, invece, c’è gente che spende anche teorie che raccontano di una follia – il negazionismo – che ha a che fare con la psicosi e non sono stato io a dirlo. Io faccio l’attore, lavoro nel campo dell’arte e quell’appello obbediva a un’urgenza: stiamo tutti attenti a cosa possiamo diventare!».

A suo parere, dopo le misure che hanno preso, pensa che ci sarà una speranza di apertura di quella finestra?
«Certo, ma la speranza si deve fondare su dati concreti, su azioni e gesti coraggiosi; la speranza senza radici non ha senso. Una speranza dove l’identità o il proprio futuro è completamente incerto e dove il racconto di quanto sta accadendo è specialistico, non è una speranza sufficientemente nutrita».

A proposito dei lavoratori dello spettacolo, qualcosa si sta smuovendo…
«Si stanno finalmente riunendo in associazioni per sentirsi ancora più categoria. Tutto questo sta avvenendo attraverso la formazione di U.N.I.T.A., della quale faccio parte, o ancora “Attrici Attori Uniti” e altre associazioni. Tante centinaia di persone si stanno unendo per cercare di difendere i diritti e creare un terreno più solido dove poi poter operare in futuro perché, fino ad oggi, la gestione di teatro, cinema e arte, in qualche modo, è stata data in mano a persone – facendo le dovute eccezioni – che hanno molto trascurato gli artisti, promuovendo dei rapporti di lavoro personalistici, sapendo che non si sarebbero mai potuti riferire alla categoria e quindi con una maggiore possibilità anche di ricatto. Oggi, questa dinamica non potrà avvenire più».

Lei ha deciso di impegnarsi con le nuove generazioni…
«È un atto che, come tanti altri colleghi, ho deciso di intraprendere già dal precedente lockdown. Oggi, per me stesso, è ancora più importante e mi piacerebbe che diventasse qualcosa di contagioso. Visto che teatri e sale cinematografiche sono chiusi, è giusto che gli operatori dello spettacolo protestino e lottino per ottenere maggiori diritti. Al contempo esistono delle persone che non hanno potuto difendersi perché non avevano gli strumenti per farlo: mi riferisco a bambini, ragazzi e studenti, per non parlare delle persone anziane. Tra queste due polarità, c’è di mezzo la gente che vive nella società. I più piccoli stanno studiando per diventare persone che possano vivere dignitosamente nella società, mentre le persone anziane non sono quelle che hanno rinunciato a vivere nella società, ma hanno fatto il proprio percorso di vita pieno di gioie e dolori e magari hanno lasciato il lavoro per poter vivere tutti gli anni che rimangono dell’esistenza nella maniera più dignitosa. Il racconto di questi tempi ha fatto in modo che gli anziani e, dall’altra parte, bambini e ragazzi fossero tra i più dimenticati. Di qui un gesto, che può anche essere piccolo all’apparenza: attori, musicisti, cantautori a un certo punto decidano, in accordo con presidi e professori, di partecipare in remoto a delle lezioni, soprattutto nelle scuole più emarginate o di provincia e possano condividere coi ragazzi non un rapporto fondato sul parlare di sé e della propria popolarità, ma donando qualcosa della propria conoscenza. Così potrebbero imparare quali sono le possibilità dell’Arte e una delle più belle è questa: quando ti si agita qualcosa dentro e non sai trovare le parole un artista sa donarti le parole giuste».

Passiamo ai suoi lavori con uscita immediata, a partire da Vite in fuga, in onda da domenica 22 novembre su Rai1. Cosa ha voluto dire interpretare Luigi Calasso, rappresentando la polizia di Stato?
«Per me e per il mio percorso è un privilegio poter navigare tra diversi personaggi, a volte opposti, avendo dato corpo a uomini di ‘ndrangheta per poi passare a Palmiro Togliatti. In questo caso ho il ruolo di un ispettore di polizia con un intuito molto raffinato nel saper leggere le persone, però possiede anche una dirittura morale che gli fornisce un punto di osservazione. Il mio personaggio è quello che più di tutti sta in ufficio, mentre quello interpretato da Barbora Bobulova entra più a gamba tesa nell’indagine con dei metodi che per Calasso sono molto poco ortodossi, a tal punto da entrare in conflitto. Allo stesso tempo sa osservare la sua amica e collega e, a un tratto, riesce a capire che l’intuito di questa donna è vincente ed è lì che una certa rigidità di Calasso si rompe e le loro strade confluiscono nell’indagine. Mi fa piacere evidenziare la regia di Luca Ribuoli, il quale trasmette sicurezza: sapevo che ero sotto lo sguardo di una persona attenta e che, ogni qualvolta si chiudeva una scena era giusta potendomi affidare. In più ho avuto accanto dei colleghi bravissimi e generosi, da Claudio Gioè ad Anna Valle, Alessandro Tedeschi, oltre a Barbora».

Prima accennava a Togliatti, al di là di quello che sapeva e dell’immaginario collettivo, cosa è riuscito a cogliere di questo statista leggendo le sue carte?
«L’enorme serietà, l’altissimo senso morale e il fatto che si sia adoperato per gli altri. Lui ha speso la propria vita per il bene comune, che poi molti non fossero d’accordo su quell’obiettivo è un conto. Quando mi è stato chiesto di interpretare Togliatti, ho rinunciato volutamente a quelli che possono essere gli strumenti di un attore per cercare di somigliargli; volevo suggerire l’idea di Togliatti, ma non avrei mai potuto avere la presunzione di immedesimarmi in qualcuno che sta molto più in alto di me, al massimo avrei potuto suggerirne l’altezza. Per esempio ci sono delle situazioni nelle quali lui e Nilde Iotti hanno degli scambi nel privato; se loro non hanno mai voluto condividere all’esterno questo è perché la priorità erano le istanze per le quali lottavano».

All’interno della 38esima edizione del Torino Film Festival, viene presentato in prima assoluta Quasi Natale (sarà disponibile sulla piattaforma di MYmovies a partire dalle h 14 del 25 novembre per 48h). Quale valore ha avuto per voi come compagnia e per lei aver reso lo spettacolo un film?
«È l’avverarsi di un sogno che abbiamo coltivato negli anni. Teatrodilina è primariamente una famiglia artistica: abbiamo condiviso aspirazioni e racconti, Francesco Lagi si è fatto autore dei testi che abbiamo interpretato. È come se avessimo riassunto una lingua comune: sono il nostro teatro e la nostra voce e il fatto che questo potesse trasmutarsi in un film era esattamente quello che ci siamo detti con Francesco dieci anni fa. Quasi Natale è il distillato del nostro percorso e il fatto che, per esempio, il festival di Torino se ne sia accorto e abbia amato il nostro lavoro a tal punto da volerlo accogliere anche se Fuori Concorso, inventandosi una sezione apposita dove c’è la nostra opera e quella di un autore francese importante come Vecchiali, per noi rappresenta un risultato enorme. Ci siamo sempre occupati di stabilire, nel tempo, una grammatica sentimentale e di comunicazione, le trame dei nostri spettacoli non sono così fitte, sono perlopiù vicende familiari. Attraverso le piccole pieghe e i piccoli interstizi del quotidiano si muovono dei sentimenti che tiriamo fuori nelle nostre pièce e quindi questi personaggi, ogni qualvolta si replica, in comunione col pubblico, attuano un piccolo processo di apprendimento di conoscenza o di approssimarsi a una svolta nella propria esistenza. Partono disorientati e, piano piano, trovano, anche se in una maniera spostata o ironica o bizzarra, un loro orientamento che li rende, secondo me, empatici. È come se ci mettessimo al di sotto del pubblico per poi, durante il percorso, piano piano, arrivare alla sua altezza per abbracciarlo meglio o per farci abbracciare. Quasi Natale è una pietra preziosa e qualcuno deve compiere quella piccola fatica di cercarlo perché non siamo sostenuti da una grande distribuzione, ma, a maggior ragione, mi sento di poter dire che chi guarderà il film avrà un sentimento di gratitudine nei nostri confronti (lo dice col pudore di chi non vuole promuoversi, ma ama ciò che ha realizzato, ndr)».

Addentriamoci di più nella storia che rappresentate…
«C’è il racconto di una donna anziana che sta lasciando la vita. Questi fratelli si riuniscono, ma nessuno di loro sa affrontare l’eventualità di questa perdita. Ognuno è preso da sé stesso e dalle proprie angosce e nel frattempo questa donna che se ne sta andando è in ospedale, è la loro madre e vorrebbe dire qualcosa. Narrando questa semplice storia, il cinema arriva a parlare in modo più potente dei media rispetto ai tempi che stiamo vivendo. Assistendo alle vicende di questi personaggi penso che il pubblico possa sentirsi coinvolto perché molti di noi non sappiamo affrontare coraggiosamente il dolore di una perdita, non sappiamo stare vicino a chi ci sta lasciando o a chi è malato. E poi mi viene da pensare a quei letti di ospedale nei reparti Covid dove ci sono delle persone che se ne stanno andando e, dall’altra parte, ci sono dei figli che non possono salutarle e ancor più c’è chi riporta in modo asettico il tutto in cifre. Borges dice che, nella storia degli uomini, ogni esistenza è sempre stata diversa dall’altra e quindi la storia di ogni donna e ogni uomo è unica».

Francesco lei è calabrese e ha dato corpo a personaggi di ‘ndrangheta, come si è approcciato?
«Ho fatto di tutto perché non si innescasse un processo di identificazione da parte degli spettatori, anzi, volevo accendere un sentimento di repulsione per quello che rappresentavo. Questo non restringe la mia capacità creativa, la amplia, dandomi la libertà di mettere in scena il male anche nei suoi aspetti volgari e grotteschi. Io ho voluto sperimentare il fatto di poter recitare pur disprezzando il personaggio che incarnavo: un uomo di ‘ndrangheta è un portatore di morte, ha il vuoto dentro e credo che nella vita sia molto realistico pensare che ci siano delle persone che dentro sono prive di spirito e hanno come interesse soltanto il danaro o la distruzione. Questo mio punto di vista è un modo per proporre un’alternativa a quella che, negli ultimi anni, è un’abitudine che mi sembra abbia preso piede: rendere seduttivo il male».

Sempre da calabrese, immagino quanto sia legato ad Aspromonte – La terra degli ultimi, che, se vogliamo, in questo periodo torna con ancora più potenza…
«Questo film racconta il presente pur parlando di una storia di cinquant’anni fa. Le stesse persone del nostro paese, in questo caso la Calabria, che vivevano nella miseria e nella povertà, hanno cercato di trovare un’esistenza migliore prima nella propria terra, ma poi dovendosene andare, non sono così dissimili da chi arriva dall’Africa e viene in Italia e, allora come oggi, sono state disprezzate. In secondo luogo, nella storia di Mimmo Calopresti – che continuo a chiamare poeta perché con questo lungometraggio ha avuto il coraggio dei poeti – si narra di una comunità che vive in cima all’Aspromonte, sotto c’è la civiltà del mare con Reggio Calabria, com’è possibile che le donne muoiono di parto perché nessuno si prende la briga, nel governo di giù, di mandare un medico? Questi abitanti scendono dalla montagna, coi loro vestiti laceri e sporchi di fango, per sfondare le porte del comune e chiedere al prefetto un medico, questi glielo promette, ma questo medico non arriva. Allora questi uomini decidono di costruire una strada – è un’utopia incarnata – è il collegamento con la civiltà perché possano arrivare le maestre di scuola per i bambini e i medici. Glielo impediscono sia il mafioso del luogo sia il governo e allora lasciano il paese. Il mio personaggio, Peppe, quando si reca al comune, urla “Volimu u medicu”, frase che racconta tanto oggi come allora. È come se su certe cose ci fosse un tempo immobile».

Riflettendo sul suo percorso artistico, ritiene che Trust e ZeroZeroZero abbiano aiutato a compiere un salto nella percezione che gli addetti ai lavori avevano di lei?
«Ogni lavoro, se fatto bene, lascia dei semi. Io procedo nel cercare di fare al meglio il mio mestiere, il solo fatto di partecipare a dei progetti è un privilegio e l’unica cosa che posso dare in cambio è la serietà nella mia professione».

Può anticiparci qualcosa sui prossimi progetti in uscita?
«In primavera dovrebbe andare in onda la serie ispirata al quotidiano storico “L’Ora” di Palermo. I personaggi sono tutti ispirati a persone realmente esistite, anche se avranno nomi diversi. Una schiera di giornalisti che ha cominciato ad avere il coraggio di chiamare le cose col proprio nome: la parola mafia nasce su quei giornali. Quelli che sembravano dei delitti separati tra loro, si sono accorti, a un certo punto, che erano collegati e che stava cominciando ad espandersi una forza criminale, che oltre a portare morte, implicava potere e controllo in primis sulla gente e poi sulla politica, creando corruzione. Questi giornalisti sono stati tra i primi a raccontarlo, rischiando la vita e sacrificando pure la propria vita privata. È un progetto molto bello perché racconta di questi uomini e la regia è stata affidata ad autori veri di cinema – Piero Messina, Ciro d’Emilio e Stefano Lorenzi» (Nel cast figurano tra i protagonisti Claudio Santamaria, Maurizio Lombardi, Silvia D’Amico e Selene Caramazza, ndr).

E sul piano cinematografico?
«Ho terminato da poco di girare Mancino naturale diretto da Salvatore Allocca, con Claudia Gerini, Massimo Ranieri, Katia Ricciarelli: una commedia sentimentale molto ben scritta. Sul set si respirava un’aria serena, anche molto ispirata».

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