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L’assedio di Sarajevo nelle foto del modenese Ottani «Racconto la vita con gli occhi dei cecchini»

L’INTERVISTA

PAOLA DUCCI

Un mirino puntato accanto alla figura di una donna che attraversa una strada. È questa l’immagine della copertina di “Shooting in Sarajevo”, il nuovo libro fotografico di Luigi Ottani, fresco di stampa. «Quasi a sottolineare il fatto che quella donna è stata risparmiata da un cecchino pronto ad ucciderla a sua scelta e piacimento», spiega il fotografo formiginese, con particolare vocazione per il reportage sociale, già autore di una trentina di volumi fotografici e di numerose mostre e installazioni realizzate sia in ambito nazionale che internazionale.

Il progetto, edito dalla casa editrice Bottega Errante, che inaugura la collana “Obiettivo”, è stato ideato e realizzato da Luigi Ottani insieme all’attrice e scrittrice Roberta Biagiarelli, curatrice dei testi. Il volume, che esce proprio in occasione dell’anniversario degli accordi di Dayton che sancirono la fine della guerra in Bosnia ed Erzegovina, racconta l’assedio della città di Sarajevo attraverso le fotografie/polaroid di un fotografo e le testimonianze inedite di chi l’assedio l’ha vissuto in prima persona. Un lavoro lungo anni, soggetto a parecchie stratificazioni, come sottolineano gli autori, che li ha portati, specialmente durante il lockdown, a riflettere sul momento storico che stiamo vivendo, quasi paragonandolo a quella lunga agonia che Sarajevo visse sotto assedio, nella quale la gente, nonostante tutto, non rinunciò mai a vivere.

«Insieme a Roberta Biagiarelli, esperta ed “amante” dei Balcani – racconta Ottani- ho intrapreso questo progetto nel 2015 osservando Sarajevo da un punto di vista particolare, banalmente incuriosito dal doppio significato del termine inglese “shooting”. Questa parola – continua – a seconda del contesto racchiude in sé due significati: fotografare e sparare. Certo non sono affatto la stessa cosa, ma non si possono ignorare molte analogie. Si inquadra nello stesso modo, si trattiene il respiro nello stesso modo, si preme il grilletto, praticamente nello stesso modo e alla fine ci si rilassa forse allo stesso modo, anche se non mi è dato sapere quale sia la reazione del corpo, del respiro e dell’anima dopo aver premuto il grilletto per uccidere».

Da questo punto di partenza Ottani ha deciso di cominciare a fotografare dagli stessi luoghi in cui gli spietati cecchini avevano sparato indisturbati su gente innocente. Figure, quelle dei cecchini, fortemente trattate anche nei testi del volume, come ha sottolineato la curatrice Biagiarelli: «Essi sono stati i grandi impuniti di quella tragica guerra, poiché è vero che alcuni di loro facevano parte dei corpi d’arma regolare, ma tanti erano mercenari, tranquilli signori, padri e madri di famiglia (c’erano anche cecchini donne),spesso cittadini europei, che nei weekend, andavano a sparare sui civili di Sarajevo, come se si dedicassero ad una sorta di arte venatoria, per poi tranquillamente tornare a casa e riprendere la loro vita regolare».

«Ad ogni scatto io ero il fotografo – ricorda con un brivido il fotoreporter – ma avrei potuto essere il cecchino. Questo mi sconvolgeva. E se all’inizio ero preoccupato quasi esclusivamente degli aspetti tecnici e fotografici, con il passare del tempo, più scattavo più la prospettiva e la focale hanno perso d’importanza. Io sono diventato il cecchino e il suo bersaglio. I miei pensieri sono diventati i loro pensieri. Vedere da quelle postazioni quanto fosse esposta la gente di Sarajevo mi ha creato un grande disagio e quando, parlando con i sopravvissuti, ho chiesto loro cosa li spingesse ad uscire e ad attraversare quegli incroci, in quelle strade, su quei ponti, per continuare a fare la vita di ogni giorno, molti di loro mi hanno risposto inaspettatamente: “Noi vivevamo e basta”».

La maggior parte delle foto riprodotte nel volume sono state pubblicate con il formato Polaroid, per sottolineare la non replicabilità dell’attimo, proprio come accadeva allora, quando i cecchini prendevano la mira dagli appartamenti di Grbavica, dalle finestre dell’Holiday Inn, dalla caserma Maresciallo Tito e dalle postazioni di montagna, divenuti per Ottani, il punto di vista ideale per perdersi nella mente di chi, da quegli stessi luoghi, inquadrava per uccidere. «La scelta di apporre in post produzione l’immagine di un mirino su ogni foto – chiarisce il fotoreporter – vuole sottolineare sia il punto di vista dello scatto che l’atroce elemento temporale. Il mirino, infatti, non è posizionato su tutti gli scatti in corrispondenza del soggetto, ma talvolta è riprodotto prima o dopo la figura umana, questo per rappresentarne per esempio l’attimo prima che il grilletto sia premuto, l’istante in cui viene premuto o il fatto di non averlo premuto, esplicitando la scelta compiuta dal cecchino di lasciare in vita quella persona».

Di grande rilevanza nel volume è anche l’accuratissima parte testuale che racchiude toccanti testimonianze di chi la guerra ce l’ha raccontata, come il giornalista-scrittore Gigi Riva, cittadino onorario di Sarajevo, il fotoreporter e giornalista Mario Boccia e lo storico del Novecento Carlo Saletti. «Nel progetto ci siamo avvalsi anche dell’amichevole complicità di due sarajevesi d’eccezione – aggiunge la curatrice Roberta Biagiarelli - Azra Nuhefendic, un’amica giornalista di Sarajevo, sopravvissuta a un cecchino, che dopo essere stata colpita rimase a terra fino all’arrivo della sera per poi alzarsi e fuggire, e del veterano di guerra Jovan Divjak.

«Da una finestra del quinto piano dell’hotel Holiday Inn il 6 aprile 1992 sono stati sparati i primi colpi sui civili, ma da quella stessa finestra il generale Divjak ha fotografato una donna con un cappotto rosso, regalandoci così uno scatto unico e meraviglioso che abbiamo inserito in questo nostro progetto condiviso». —

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