Destinato alla meccanica, figlio d'un aviatore, aveva attraversato l'America in sella alla sua moto Indian Chief, modello del 1946. Talmente innamorato del motore che quando la ragazza gli chiese "preferisci la moto a me?", Steve McQueen se ne andò sulla due ruote, lasciando lei di stucco, sul marciapiede.Logico che "il re del cool", interprete memorabile del film La grande fuga (1963), dove sfuggiva alla Wehrmacht sgasando su una moto alla frontiera svizzera, ispirasse i costruttori d'auto. Né stupisce che, quasi quarant'anni dopo la sua morte, avvenuta il 7 novembre 1980, l'immagine dell'attore sia ancora associata al mondo dell'automobile. Per il suo 70 anniversario (1947-2017), la Ferrari si è regalata una serie speciale, ideata intorno a personalità emblematiche in sintonia con la marca. E "The Steve McQueen" è nata a Maranello per imitare la Berlinetta Lusso 250 GT di proprietà della star di Bullitt (1968). Non senza conseguenze legali, però, visto che gli eredi dell'attore ora accusano la Ferrari d'aver utilizzato il nome di Steve McQueen senza chiedere l'autorizzazione alla famiglia. Sebbene la casa automobilistica abbia ribattezzato il modello "The Actor", la famiglia McQueen insiste: il nome della vedette, o qualsiasi riferimento ad essa, non va utilizzato senza previo consenso.Danni e interessi ammonterebbero a tre milioni di dollari e anche la Ford, che nel gennaio scorso ha presentato un'edizione limitata del suo modello Mustang, battezzandolo "Mustang Bullitt", dal titolo del film di cui McQueen era protagonista, ha dovuto fare i conti con Molly McQueen, nipote dell'attore. Ricordiamo che in quella pellicola dell'inglese Peter Yates, "il ragazzo di Cincinnati" impersonava il tenente di polizia Frank Bullitt, solito sfrecciare per le strade di San Francisco a bordo d'una Ford Mustang GT 390 "Highland Green", verde montagna. Impossibile non ricordare quella prima rincorsa della storia del cinema moderno, con Steve che lanciava personalmente il suo bolide a 200 all'ora. A Hollywood nessuno capiva perché l'attore rischiasse l'osso del collo a quel modo: se avesse avuto un incidente, non avrebbe potuto terminare il film. Però McQueen aveva le sue idee: per taroccare il motore, si era rivolto a un meccanico tuttofare, Max Balchowsky. Uno rotto a ogni trucco. Naturalmente, tra il divo e i dirigenti della Ford i rapporti non furono idilliaci sul set di Bullitt, di cui McQueen era anche produttore. Siccome la casa automobilistica gli negava l'appoggio finanziario, Steve fece ritirare il logo del cavallo, caratteristico della Ford Mustang, dalle calandre delle quattro macchine utilizzate in contemporanea per il film.Il fatto è che faceva sul serio: diventato ricco, comprava una vettura d'epoca via l'altra. Shelby Cobra, Jaguar XK-SS, Porsche, Ferrari, Lotus... Per tacere delle corse in Formula 1. La corsa delle 24 ore, una galoppata furibonda tra un guasto e l'altro, narrata nel docufilm Steve McQueen, The Man Le Mans, portò all'attenzione del mondo quel centauro travestito da attore. Tra i '60 e i '70, poi, Hollywood sognava il film definitivo sugli sport meccanici. Con Grand Prix (1966) di John Frankenheimer arrivò l'Oscar. Tre anni dopo, Paul Newman agguanta un bolide impressionante per Indianapolis pista infernale, dov'è un pilota ossessionato dal successo. A rischio di perdere la sua donna. Steve, invece, la cui carriera decollò come un jet con I magnifici sette, La grande fuga, Il caso Thomas Crown e Bullitt, riuscì a tenere insieme tutto: donne, carriera, corse, macchine e moto veloci. img src=http://www.ilgiornale.it/sites/default/files/styles/content_foto_node/public/foto/2018/08/09/1533796197-7307047.jpg /