La Dichiarazione d'Indipendenza degli Stati Uniti fu varata al congresso d Filadelfia nel tardo pomeriggio del 4 luglio 1776. Il principale estensore ne fu Thomas Jefferson. All'epoca, questi, che discendeva da una famiglia di proprietari terrieri della Virginia, aveva da poco superato i trent'anni, ma godeva di stima e simpatia generalizzate malgrado l'aspetto un po' goffo e la voce tutt'altro che stentorea. Jefferson divenne, poi, il terzo presidente degli Stati Uniti e la sua immagine fu scolpita sul monte Rushmore. Egli sosteneva che, stilando la Dichiarazione, si era limitato a mettere nero su bianco ciò che sentivano e pensavano gli americani: un'operazione di "buon senso", insomma, e nulla più. Tuttavia è fuor di dubbio che il suo "buon senso" si alimentava degli echi della speculazione filosofica del tempo, segnatamente di certi filoni del pensiero illuminista europeo, in particolare francese e inglese. Il che spiega perché la Dichiarazione, al di là dei connotati giuridici e normativi, sia divenuta oggetto di interpretazioni che, pur riconoscendo la novità straordinaria del documento per la storia dell'umanità, cercano di scandagliarne i precursori culturali.In questo dibattito storiografico si inserisce un recente volume di due apprezzati studiosi di storia americana e di storia delle relazioni internazionali, Giuliana Iurlano e Antonio Donno. Il libro, intitolato La nascita degli Stati Uniti d'America. Dichiarazione d'Indipendenza ed esordio sulla scena internazionale (Franco Angeli, pagg. 386, euro 46), ripercorre le vicende degli Stati Uniti dall'epoca della colonizzazione sino alla guerra anglo-americana del 1812-1815, senza tralasciare una approfondita analisi degli esordi della politica estera americana tra neutralità e impegno sullo scenario internazionale. Ma, soprattutto, propone un approccio interpretativo originale proprio sulla dichiarazione.Nella prima parte del volume, infatti, Giuliana Iurlano, pur tenendo presenti le non poche suggestioni filosofiche riconducibili al documento, interpreta la Dichiarazione d'Indipendenza alla luce del pensiero di Baruch Spinoza. L'influenza fondamentale di Spinoza riguarderebbe il diritto naturale, fatto proprio da Locke e confluito nell'esperienza rivoluzionaria americana. Spinoza, infatti, aveva introdotto il diritto naturale all'interno della sua concezione del principio unitario da cui discendeva l'intera realtà, quel Deus sive Natura che è al centro della sua riflessione. La wilderness americana, da questo punto di vista, secondo l'autrice, sarebbe l'incarnazione storica dell'identificazione Dio-natura: storica perché l'uomo diventa il fondamento della comunità organizzata e perciò, infine, degli stessi Stati Uniti d'America. Ne deriva che il diritto naturale, nel significato attribuitogli da Spinoza e pienamente recepito nella Dichiarazione d'Indipendenza, non precede il diritto positivo, ma è parte integrante, anzi decisiva, dello stato civile, del diritto statuale, cioè è storia. Da tutto ciò discende la libertà dell'uomo, che non è pura tolleranza reciproca ma diritto di esercitare liberamente la propria attività, quella libertà che nella Dichiarazione d'Indipendenza è la "ricerca della felicità". Da tutti questi presupposti per rifarsi allo Spinoza del Trattato politico scaturiscono il concetto e la pratica della democrazia, "il miglior regime di governo", "il più naturale tra tutti", perché le emanazioni di Dio sono presenti nelle anime di ogni essere umano, come si dice, appunto, nella Dichiarazione d'Indipendenza. Di conseguenza, la democrazia, secondo Spinoz, è costruzione sociale e individuale nello stesso tempo.Giuliana Iurlano, dunque, con un approccio interpretativo nuovo, riprende i concetti fondamentali di Spinoza sulla libertà dell'uomo e li innesta nel cuore della Dichiarazione, rendendola debitrice delle straordinarie intuizioni del filosofo ebreo. Ma non solo. C'è anche un altro motivo di originalità nell'analisi della studiosa. Esso consiste nella valutazione della Dichiarazione d'Indipendenza americana come un trattato internazionale, firmato dai tredici Stati indipendenti che costituiranno successivamente il nucleo fondante gli Stati Uniti d'America. Che si trattasse davvero di un trattato internazionale appare evidente dall'impianto costituzionale che le ex-colonie avevano sottoscritto, cioè gli Articoli di Confederazione, che le riuniva volontariamente come Stati sovrani in un Congresso con poteri legislativi, ma privo di vera efficacia dal punto di vista amministrativo e giudiziario.Innovativa dal punto di vista interpretativo è anche l'altra parte del volume, solo apparentemente avulsa dalla prima e dovuta alla penna di Antonio Donno. Qui l'autore ricostruisce con grande finezza le cause della guerra anglo-americana che si svolse tra il 1812 e il 1815 e che gli americani del tempo definirono la loro seconda guerra d'indipendenza. Questo conflitto, una pagina poco esplorata della storia americana, è in realtà molto importante perché si sviluppò in un periodo di formazione della nazione americana, quasi a ridosso del momento dell'indipendenza, quando la Gran Bretagna non aveva ancora smaltito l'onta della perdita delle colonie americane. La causa principale della guerra fu la politica di Londra sull'Atlantico, dove le navi americane erano regolarmente sequestrate e gli equipaggi costretti a lavorare sulle navi inglese. Si trattava di una patente violazione della libertà di commercio, che Washington non poteva tollerare, per ragioni economiche, ma anche perché era contraria proprio a quei concetti basilari della Dichiarazione d'Indipendenza, esaminati nella prima parte del libro. La guerra si svolse principalmente nell'Atlantico, ma anche in alcune regioni dell'Ovest americano e sui Grandi Laghi e la pace di Ghent, firmata per estenuazione, lasciò insoluti i problemi che aveva portato al conflitto. Tuttavia, essa dimostrò come e fino a qual punto lo spirito della Dichiarazione d'indipendenza fosse un punto fermo.