Questo articolo è pubblicato sul numero 14 di Vanity Fair in edicola fino al 6 aprile 2021
Il 21 marzo un uomo dello Sri Lanka di 68 anni era in metropolitana a Manhattan quando un altro passeggero gli ha urlato un insulto razzista e gli ha dato un pugno in testa. È stato portato in un ospedale in condizioni critiche. La mattina successiva, un uomo di 66 anni di origine asiatica è stato preso a pugni in faccia nel Lower East Side. Katie Hou, 37 anni, cinese-americana, è stata colpita in faccia due volte da un uomo dopo che aveva lasciato una manifestazione a Union Square insieme alla figlia di sette anni. Lo stesso giorno, una donna di 41 anni è stata gettata a terra a Midtown e una donna di 54 è stata colpita al viso con un tubo di metallo.
Sono solo gli ultimi (e probabilmente nel frattempo ce ne saranno stati altri) episodi di violenza verbale e fisica di cui è stata vittima la comunità asiatica americana, un fenomeno che ha avuto il suo culmine il 16 marzo scorso con la sparatoria avvenuta ad Atlanta dove un uomo bianco di 21 anni, Robert Aaron Long, ha ucciso otto persone, di cui sei donne asiatiche che lavoravano in tre diversi centri massaggi. Arrestato qualche ora dopo la strage, l’assassino ha dichiarato alla polizia di soffrire di dipendenza da sesso e di aver deciso di colpire chi lavorava nei centri benessere perché per lui quei luoghi rappresentavano la tentazione. In molti però credono che la motivazione sottostante sia l’odio razziale e che la strage di Atlanta altro non sia che l’evento più criminale di una tendenza che negli Usa è in atto ormai da un anno, dall’inizio della pandemia. Una situazione così preoccupante che uno dei primi atti ufficiali del nuovo presidente Joe Biden, il 26 gennaio, appena insediatosi, è stata la firma di un ordine esecutivo che denuncia e condanna l’ondata di razzismo nei confronti degli asiatici americani.
Il gruppo di difesa Stop AAPI Hate ha affermato di aver ricevuto oltre 3.800 segnalazioni di episodi di odio nell’ultimo anno. Un dato confermato dalle forze di polizia locali: sebbene l’aumento degli attacchi è stato particolarmente concentrato nella Bay Area, a San Francisco e nelle Chinatown di Oakland, nella sola New York City la task force sui crimini d’odio lo scorso anno ha registrato un aumento di nove volte rispetto all’anno precedente. Molti attivisti e le stesse forze dell’ordine, così come l’Fbi, pensano che la ragione della crescita di questi episodi sia legata alla retorica e al linguaggio che l’ex presidente Trump ha usato durante tutta la pandemia, definendo spesso in occasioni ufficiali il coronavirus come «China virus» o «kung flu».
«Abbiamo paura, sono stati mesi molto duri», dice Chung Seto, consulente politica e attivista all’interno della comunità asiatica di Manhattan. «Trump ha reso più evidente un sentimento che c’è sempre stato, quello di considerarci stranieri, tanto è vero che l’insulto più frequente che ci viene rivolto è: tornatene al tuo Paese. Ma se prima veniva detto sottovoce, oggi viene urlato. È come avere un bersaglio sulla schiena. Gli asiatici americani soffrono ancora degli effetti del razzismo su cui è stato fondato il nostro Paese».
I primi immigrati cinesi iniziarono ad arrivare negli Stati Uniti nel 1850, ma nonostante il loro ruolo fondamentale nella costruzione delle infrastrutture americane, il razzismo nei loro confronti è stato una costante. Nel 1875 il Page Act fu messo in atto per vietare agli immigrati ritenuti «indesiderabili» di entrare negli Usa. In pratica, è stato utilizzato come un modo per impedire alle donne cinesi di migrare negli Stati Uniti perché si pensava che avrebbero fatto le prostitute. Nel 1882 con il Chinese Exclusion Act, che riteneva i cinesi responsabili del declino economico e del crollo dei salari, il Congresso approvò la loro esclusione dal Paese proprio per placare le richieste dei lavoratori e lenire le preoccupazioni sul mantenimento della «purezza razziale» dei bianchi.
«L’anno scorso sono stato ospite in trasmissioni televisive dove si attribuiva la responsabilità dolosa del virus alla Cina ed era chiaro che la mia presenza lì serviva solo a giustificare il sensazionalismo di certe affermazioni», dice Shi Yang Shi, attore e scrittore, nato in Cina, in Italia dal 1990 e cittadino dal 2006. La sinofobia dilaga nel mondo quanto e più del virus: essere costretti a guardare alla Cina di oggi come a una potenza economica non impedisce il pregiudizio né l’odio contro il suo popolo, anzi. Se in Italia non ci sono dati ufficiali, l’organizzazione European Network Against Racism parla di 191 casi di violenza solo tra gennaio e aprile 2020, durante la prima ondata. «È un odio che nasce dalla poca conoscenza, dalla fatica a comprendere come e quanto la Cina sia cambiata e dalla difficoltà a tenere separata la gente dal suo governo. C’è molta confusione e non dico che non sia giustificata: d’altronde i cinesi sono quelli che comprano l’Inter ma sono anche quelli che ti tagliano le unghie».
In America si parla anche di una responsabilità di Hollywood nel mantenere stereotipi soprattutto sulle donne asiatiche, troppo spesso prostitute. «La prima cosa che fanno i soldati Usa quando arrivano in Vietnam è andare in un bordello», dice Seto. «Siamo sempre raccontate come sottomesse, esotiche, eterne Suzie Wong. Sono stereotipi difficili da smantellare, ma bisogna farlo. Partendo dall’intrattenimento, certo, ma anche dall’informazione e dall’industria: nelle redazioni e nei consigli di amministrazione devono esserci più asiatici. La rappresentazione è importante. Vogliamo essere visti e ascoltati. E poi, spero in un’alleanza con movimenti come Black Lives Matter. Grace Lee Boggs, Yuri Kochiyama, Ninotchka Rosca, Helen Zia: queste donne straordinarie negli anni Sessanta hanno lavorato nel movimento per i diritti civili accanto a Malcolm X e al dottor King. Oggi dobbiamo ritrovare quella unità, esserci gli uni per gli altri nel combattere il suprematismo bianco».
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