Sarà che nella sua famiglia l’arte è sempre stata di casa e sarà che il suo trisavolo è stato uno dei più grandi commediografi del teatro italiano, ma Eduardo Scarpetta non ha mai pensato di fare un altro lavoro se non quello dell’attore. «Non ho mai pensato di fare altro. Lo faccio perché recitare mi smuove qualcosa dentro e ogni volta che sto per entrare in scena il cuore mi batte a mille» spiega Eduardo al telefono dalla sua camera d’albergo di Roma, dove è impegnato nelle riprese del film La donna per me di Marco Martani. «Il cinema per me è arrivato quando è arrivata la pandemia» insiste Scarpetta, che vedremo presto anche in Qui rido io, il nuovo film di Mario Martone dedicato proprio al suo trisavolo Eduardo Scarpetta, interpretato da Toni Servillo.
Forte di una carriera che lo ha portato a debuttare a teatro all’età di 9 anni sotto la spinta del padre e a essere conosciuto dal grande pubblico grazie al ruolo di Pasquale nell’Amica Geniale e a Capri Revolution dello stesso Martone, Scarpetta guarda avanti con ottimismo, accogliendo con grande entusiasmo e un forte senso di orgoglio non solo l’essersi calato nei panni del suo bisnonno Vincenzo nel film di Martone, ma anche in quelli di un altro mostro sacro della napolenità e della canzone italiana che è Renato Carosone, protagonista assoluto di Carosello Carosone, il film diretto da Lucio Pellegrini che abbiamo visto su Raiuno il 18 marzo.
Insomma, le piacciono le sfide.
«A chi non piacciono? Interpretare una leggende come Renato Carosone per me è stato un onore, anche se non è stato facile. Dalla scorsa estate ho iniziato a prendere lezioni di pianoforte con Ciro Caravano, facevo su e giù da Salerno per poi tornare a casa e mettermi a studiare: visto che nel film le mie mani sarebbero state inquadrate diverse volte, ho fatto diversi esercizi di articolazione oltre recuperare in Rete tutti i video possibili e immaginabili di Carosone per imitarne la postura, l’atteggiamento, il sorriso».
È un secchione, insomma.
«Diciamo così. Per me la recitazione è studio, lo trovo necessario per chiunque voglia affrontare questo mestiere».
Lo studio dipende dal fatto di voler dimostrare di valere l’altezza del cognome?
«Il fatto di avere i social e di fare un monologo per poi pubblicarlo in Rete non farebbe di me un attore. È un mestiere che prevede preparazione, competenza e attitudine, studio. Essere all’altezza del cognome che porto è impossibile perché il mio trisavolo ha vissuto nel 1880, in un mondo completamente diverso da quello di oggi, ma credo che essere cresciuto in una famiglia in cui si è sempre respirato il teatro mi abbia sicuramente aiutato per prepararmi in maniera più consapevole».
Infatti lei ha debuttato a teatro giovanissimo, a 9 anni.
«Mi ha iniziato mio padre con Felicello e Felicella per 150 anni dalla nascita di Scarpetta: facemmo 8 repliche. Ero il bambino più felice del mondo e nn ci è voluto molto per capire che da grande avrei fatto quello».
Come faceva a esserne così sicuro?
«È una cosa che senti dal cuore che batte, dalla gente che ti sta intorno. Diciamolo, se fossi stato un cane rabbioso, proprio perché mi chiamo Scarpetta qualcuno me lo avrebbe fatto notare e mi avrebbe consigliato di andare a lavorare in officina, ma non è stato così».
All’inizio della carriera pensa che il cognome sia stato più un aiuto o un ostacolo?
«Avendo perso mio padre a 11 anni mi sono reso subito conto che ce l’avrei dovuta fare con le mie gambe: ho fatto tanta gavetta, sono partito come comparsa e poi, tra cinema e televisione, sono arrivato al primo ruolo di protagonista con Carosone a 28 anni, 19 anni dopo aver iniziato. Il percorso di crescita c’è stato tutto».
Se avesse voluto, avrebbe potuto intraprendere delle scorciatoie?
«Se mio padre, Mario Scarpetta, fosse stato vivo probabilmente sarei entrato nella sua compagnia e un giorno mi avrebbe detto “questo sarà tuo”. Non è stato così. Mia madre fa l’attrice, ha conosciuto papà sul palco, ma non avrebbe mai avuto la possibilità di raccomandarmi. Sapevo, però, che se avessi voluto fare questo lavoro sarei dovuto entrare dalla porta principale: ho frequentato il Centro Sperimentale, ho lavorato in un bar a Monti per mantenermi mentre facevo i provini, poi il doorman. Infine sono arrivati Filumena Marturano, uno Shakespeare, una cosa ha chiamato l’altra…».
Mi sembra che non si sia mai fermato. Ha mai voglia di prendersi una pausa dal lavoro?
«Vorrei tanto viaggiare, ma al momento non è possibile sia per il lavoro sia per la pandemia. Se potessi, mi piacerebbe andare in posti tipo la Cambogia, il Tibet, la Birmania. Sono anni che cerco di organizzare qualcosa, ma non ci riesco mai: dovevo fare una settimana di trekking sulle Dolomiti ma, qualche giorno prima di partire, Martone mi organizzò una lezione con le capre perché in Capri Revolution avrei dovuto fare il capraio. Con il lavoro ho capito che bisogna organizzare volta per volta: magari un giorno sarò nella posizione di dire all’agenzia di volermi prendere 15 giorni a prescindere da tutti, ma per ora no».
Tra l’altro credo che lei sia uno dei pochissimi attori cui è stata data la possibilità di recitare in un film sulla propria famiglia, gli Scarpetta.
«Molti mi hanno chiesto com’è stato recitare nel panni del mio bisnonno, ma la verità è che durante le riprese non ci ho badato: sicuro quando mi rivedrò sarà pazzesco. Sapere che quelle cose sono accadute davvero è una grande emozione per me. In generale mi emoziono anche quando mi rivedo che faccio il caffè, figuriamoci a vedere la mia famiglia raccontata. Dobbiamo sempre sapere da dove veniamo per capire dove vogliamo andare».
Qual è il suo più grande talento?
«La curiosità, il motore dell’essere umano».
Oltre a viaggiare, nel suo futuro cosa vorrebbe?
«Avere una compagnia mia e girare il mondo».
(Foto in apertura di Davide Musto)
