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La deriva aggressiva della politica nell’America in guerra con se stessa

Si discuterà a lungo se l’attentato che ha colpito Donald Trump non potesse essere impedito, se chi lo ha compiuto abbia davvero agito da solo, o se avesse qualche complicità, o se alla base di tutto vi fosse un complotto accuratamente preparato. Difficilmente si arriverà in tempi rapidi a conclusioni provate, mentre sulle cause e sulle possibili conseguenze è possibile cominciare a ragionare fin d’ora.

Conviene prima di tutto ricordare che non si tratta di un evento inedito, in particolare per la storia americana. E chiedersi in che cosa consistono, se ci sono, le novità. Altri attacchi a colpi d’arma da fuoco hanno ucciso il presidente in carica John F. Kennedy nel 1963 e il candidato alle presidenziali Robert Kennedy nel 1968, mentre l’allora presidente Ronald Reagan fu ferito nel marzo 1981 ben più gravemente di quanto sia accaduto ora a Trump.

In tutti questi casi sono stati accusati cosiddetti lone gunmen, sparatori solitari, e per quasi tutti sono state studiate possibili cospirazioni, senza arrivare però a ricostruzioni del tutto certe; solo per l’attentato a Reagan è ormai chiarito che a colpire fu uno psicopatico, John Hinckley Jr.

Nei prossimi giorni e settimane si indagherà a lungo sulla personalità di Thomas M. Crooks, l’autore dell’attentato, e sicuramente gli indizi contraddittori sulle sue simpatie politiche saranno richiamati dall’una e dall’altra parte per accusarsi a vicenda. Ben pochi però si porranno il problema di come quell’individuo si sia potuto impossessare di un’arma semiautomatica in grado di uccidere non una ma decine di persone.

Ogni tentativo di limitare la diffusione di armi da guerra, anche semplicemente di stabilire controlli sulla salute mentale e i comportamenti di chi le acquista, è stato sistematicamente bloccato per pressione di una potente lobby che ha il massimo appoggio proprio nel partito di Trump, e sono stati respinti anche i tentativi di rendere l’industria degli armamenti corresponsabile delle stragi.

Il fatto che le tesi complottistiche abbiano cominciato a circolare con estrema rapidità, in sé, non stupisce vista la capacità che hanno i social network di tradurre le supposizioni di un singolo in certezze di una folla.

Colpisce però il fatto che questa volta siano entrambe le parti dello schieramento politico, in modo quasi perfettamente simmetrico, a offrire la loro “spiegazione”, a raccontare la loro presunta cospirazione.

Da una parte lo schieramento filorepubblicano accusa esplicitamente i suoi avversari come minimo di avere causato volutamente la violenza lanciando accuse estreme e immotivate contro Trump, ma tantissimi parlano di un attentato organizzato per liquidare il candidato destinato a vincere, e perfino accusano personalmente Biden di essere il mandante dell’azione. Dall’altra parte molti filodemocratici propongono un racconto opposto, sostenendo che sia stato lo stesso Trump a mettere in piedi l’aggressione armata, a fabbricare una sorta di “sceneggiata” al fine di uscirne come martire ed eroe, allargando i suoi consensi.

Vanno notati soprattutto i toni prevalenti in questo confronto: sono molti, dall’una e dall’altra parte, a parlare letteralmente di una “guerra civile” che starebbe arrivando, e della quale ciascuna delle due parti addebita la responsabilità al proprio avversario mentre chiama alle armi chi condivide le sue convinzioni. E colpisce il fatto che dichiarazioni altrettanto gravi, da parte repubblicana e contro Biden, siano state pronunciate non da “uomini della folla” ma da esponenti politici importanti, soprattutto della camera dei deputati.

Per quanto fossero divisi politicamente gli USA, negli anni Sessanta come negli anni Ottanta, i precedenti attentati arrivarono come una sorpresa per tutta l’opinione pubblica, che si divise sulle spiegazioni ma senza rompere un’unità di fondo nell’idea che la democrazia andasse difesa. L’attentato a Trump è arrivato invece in un paese già totalmente spaccato, e da una divisione che non è su linee ideologiche, perché anzi molti elettori repubblicani su temi come la sanità pubblica o il salario minimo sono “a sinistra” di tanti democratici o viceversa.

La spaccatura nasce almeno in parte da fattori più superficiali ma emotivamente più coinvolgenti, come l’opposizione tra gli abitanti delle aree urbane, più filodemocratici, e quelli dell’America profonda tendenti ad appoggiare i repubblicani, e come l’estrema personalizzazione della politica, per cui gli elettori democratici tendono letteralmente a detestare Trump, gli altri a disprezzare ferocemente Biden. In Europa e in particolare in Italia sentimenti così aggressivi non sono ancora egualmente radicati ma anche da noi il rifiuto di rispettare gli avversari, quel rispetto che dovrebbe essere al cuore della democrazia, è sempre più evidente.

Negli USA ora più si avvicinano le elezioni più questi sentimenti di ostilità, verso gli avversari e verso il loro candidato, si fanno violenti e intransigenti. La “guerra civile” non è e speriamo non sarà mai in atto, ma cova nell’ombra, e non da oggi, nel Paese. L’attentato, anche se si dimostrerà che è stato davvero un gesto individuale come lo fu per Reagan, è maturato comunque in questo conflitto continuo e irrisolto. Ed è destinato ad alimentarlo e ad aggravarlo ulteriormente, in un clima di violenza che peggiora anche perché il Paese è armato fino ai denti.

È probabile che sarà Trump a trarne vantaggio, non solo per la prontezza di spirito che gli ha permesso di presentarsi come indifferente ai pericoli che aveva appena corso ma anche perché tra i due contendenti è, da sempre, quello che più ha puntato sulle divisioni del Paese, e sui sentimenti di ostilità, fino alla “rivolta” del 6 gennaio 2020.

E perché, a confronto con un Biden sempre più in bilico come candidato democratico, potrà presentarsi come il sopravvissuto, il “vincente”, in quella sfida feroce e impietosa tra winner e loser che ormai è al centro del vocabolario, e del sistema di valori, non solo americano.

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