Dire sì senza dire sì, questo è il problema. Se Ursula von der Leyen sarà designata per un secondo mandato alla guida della Commissione esecutiva dai Capi di Stato e di governo dell’Unione Europea, l’Italia come Paese non ha una reale convenienza a mettersi di traverso. Ma se Giorgia Meloni sosterrà la candidata popolare tedesca, dovrà vedersela con gli alleati leghisti che hanno giurato “non la voteremo mai”.
Ci vorrà tutta l’abilità della premier per non finire fuori pista e dimostrare che aveva ragione chi definiva la politica non tanto l’arte del possibile, quanto quella di “saper scegliere fra il disastroso e lo spiacevole”. Cosa che, con ogni probabilità, succederà anche questa volta. La retorica governativa di un accordo del caminetto che tradisce il voto europeo sfuma appena si attraversano le Alpi.
I sei leader che hanno tessuto il consenso su Ursula rappresentano oltre venti governi su ventisette e le tre famiglie politiche che hanno conservato la maggioranza al Parlamento europeo. Detengono i numeri (sulla carta), il potere e il diritto di scegliere. Salvo colpi di scena, proporranno Von der Leyen per la riconferma alla Commissione e, se andrà così, sarà lei a dare le carte per attribuire gli incarichi della sua squadra, uno per ogni Stato. Esprimersi contro e finire con un portafoglio debole sarebbe tutt’uno. Senza contare che Bruxelles dovrà gestire in futuro numerosi dossier italiani cruciali, dai conti pubblici al Pnrr.
Per entrare a gamba tesa, bisogna essere davvero convinti e consapevoli del clima che seguirà. Dietro le quinte si tratta parecchio. A Palazzo Chigi valutano un’astensione motivata con prudenza diplomatica. Magari modulata se si votasse a rate, con un solo “no” al portoghese Costa per il Consiglio. Meloni potrebbe spiegare a Von der Leyen le ragioni della mossa con argomentazioni di politica interna, chiederle di non metterla sul personale e assicurarle che anche i venticinque eurodeputati di FdI, pur nel segreto dell’urna, non le spareranno addosso.
Ursula potrebbe accettare, le sue dichiarazioni delle ultime ore sono tutte aperturiste, dossier migrazioni in testa. La difficoltà di un governo sostenuto da forze che in Europa appartengono a tre famiglie diverse e confliggenti è chiara anche a lei. Così, potrebbe scegliere di credere alla buona fede italiana e venirle incontro, nelle scelte strategiche e nei portafogli, creando le basi per una collaborazione corale costruttiva che la Storia, e i suoi conflitti, rendono ogni giorno più complessa e necessaria.
Se Giorgia Meloni riuscirà nella sua capriola politica, potrà ottenere la vicepresidenza e la poltrona che vuole a Palazzo Berlaymont. Detto che i commissari investiti dovranno passare l’esame del Parlamento – dove le famiglie che sostengono Ursula e quelle anti-destra hanno una larga maggioranza – molto dipende dal nome che sarà intavolato. Uno come Raffaele Fitto ce la può fare, è ben considerato, è stato a Strasburgo, non dovrebbe incontrare ostacoli insormontabili.
La questione finale è se conviene chiedere “Bilancio e Pnrr”. È un portafoglio tecnico senza troppa visibilità. Oltretutto, nel 2026, l’Italia potrebbe trovarsi a domandare la proroga del Programma e avere l’arbitro di casa rischierebbe di rendere l’impresa (probabile, a dire il vero) più insidiosa. Il match delle prossime ore può chiarire il quadro. L’auspicio è che sia nell’interesse dell’Europa, dunque dell’Italia, dalla quale, come ricorda sempre il presidente Mattarella, “non si può prescindere”.
