Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, parla dei medici come «patrimonio da preservare e su cui investire». Papa Francesco definisce il loro lavoro «generoso e a tratti eroico», vissuto «come una missione». A Massa, domenica 20 febbraio, è stato intitolato al dottor Marco Morale, 57 anni, il reparto dell’ospedale Apuane – quello di Medicina – dove lavorava. Proprio nel giorno in cui, esattamente un anno fa, moriva per le complicazioni legate al Covid-19 e sempre nella giornata in cui, in Italia, si ricordano i “camici bianchi”. Tutti gli operatori della sanità per il loro impegno, la professionalità e il sacrificio, anche. Evidente più che mai durante la pandemia. Peccato – sottolinea il dottor Flavio Civitelli, segretario toscano di Anaao-Assomed, il sindacato dei medici ospedalieri – che per ottenere risarcimenti del danno per decesso da Covid-19 passi molto tempo. Troppo. Ma almeno i medici ne hanno diritto.
LA DENUNCIA DEL SINDACATO
Il consiglio dei ministri ha approvato un fondo da 15milioni per gli indennizzi da destinare alle famiglie dei medici la cui morte è dovuta al coronavirus. «Riguarda solo quei colleghi non convenzionati con l’Inail, dunque non dipendenti del Servizio sanitario nazionale – sottolinea Civitelli –: sono esclusi i medici ospedalieri, ma anche i medici di famiglia e i pediatri. Siamo soddisfatti del fatto che ai familiari degli altri medici spetti un risarcimento considerata la grave perdita subita, ma chiediamo anche per la nostra categoria una semplificazione. È molto complicato, infatti, riuscire a dimostrare all’Inail il nesso di causalità tra la morte di un medico e il Covid-19. Pratiche amministrative, adempimenti burocratici sfiancanti: una vera propria istruttoria per riuscire a dimostrare che il collega, se non avesse contratto la malattia, sarebbe vissuto. Continuiamo a essere chiamati “eroi”, ma nella sostanza non c’è un reale riconoscimento della nostra professione». Civitelli polemizza riferendosi all’organico ridotto e agli ospedali ancora troppo affollati. «È davvero complicato lavorare in queste condizioni: mancano i posti letto e strutture – sottolinea – per non parlare del personale, ridotto all’osso e costretto a fare turni massacranti per garantire le cure ai pazienti. L’emergenza non è finita. Siamo ancora nel pieno dell’emergenza. Ringraziamo tutti per le parole di gratitudine, ma ora vorremmo più fatti».
CHI NON CE L’HA FATTA
Questa richiesta è tanto più evidente quando ci sono medici che si ritrovano per commemorare la scomparsa di un collega. Proprio contagiato dal Covid. Succede a Massa, dove domenica 20 febbraio si è svolta una cerimonia per ricordare il dottor Marco Morale, 57 anni, medico del Noa (Nuovo ospedale Apuano) e musicista originario della Spezia e residente a Pisa. Una cerimonia commossa, a cui hanno partecipato familiari, amici e professionisti. Si è conclusa con l’intitolazione al medico del reparto di Medicina. Lì, in ospedale, ancora tutti ricordano quel “focolaio” che, più di un anno fa, contagiò diversi medici. Era il 10 dicembre: 17 giorni dopo sarebbe cominciata la campagna vaccinale contro il Covid-19 negli ospedali.
IL RICORDO DEI COLLEGHI
Morale è morto prima. I colleghi non si capacitano di non vederlo più in corsia. Lo dice Alessandro Pampana, direttore del reparto di Medicina dell’ospedale Apuane. E lo sottolinea anche la dottoressa Giuliana Andreani, in rappresentanza di tutti i medici del Noa. «Ho condiviso vent’anni di professione con Marco – ricorda –. Lui era pneumologo, medico internista. Ci ha insegnato tutto quello che sappiamo, anche come usare il ventilatore polmonare. È stato per noi un collega e un amico fidato. Un professionista instancabile, sempre al fianco dei suoi pazienti. Poi tutto è precipitato. Con la pandemia che ha sconvolto tutti gli equilibri. E pure le nostre vite». All’ospedale di Massa – così come nel resto della Toscana e d’Italia – capiscono che il virus sta per sconvolgere le loro vite. «All’inizio non eravamo preparati – conclude la dottoressa – poi è subentrata la stanchezza. Ma ciò che non dimenticheremo mai è l’impegno di Marco. Anche di fronte ai casi più gravi. Lui non si è mai arreso e quando ha contratto il Covid-19 abbiamo sperato di vederlo tornare in corsia. Lui rappresenta il coraggio dei medici, l’amore per la professione. Anche quando significa mettere a repentaglio la stessa vita. Marco l’ha fatto: ha messo il suo sapere al servizio dei suoi pazienti. Perciò ora il reparto dove ha lavorato negli ultimi quindici anni porterà il suo nome. Per non dimenticarlo. Mai».
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