SAN FELICE. Sette anni e 3 mesi dopo la notte degli arresti si è di fatto concluso Aemilia, il più grande processo alla ’ndrangheta del nord Italia. Si chiude però con un epilogo drammatico a San Felice dove Augusto Bianchini, dopo aver appreso la conferma della condanna a 9 anni, ha tentato di togliersi la vita, tagliandosi le vene. Lo ha fatto in casa, mentre nelle altre stanze c’erano i familiari che con lui avevano atteso la sentenza della Corte di Cassazione. Tutti speravano che anche per il capofamiglia venisse esclusa l’aggravante mafiosa, ossia l’aver agevolato il radicamento della ’ndrangheta in terra emiliana. Ma la Suprema Corte non ha accolto i ricorsi degli avvocati Giulio Garuti e Simone Bonfante e li ha rigettati.
La condanna è così definitiva e per l’imprenditore è piuttosto concreto il rischio di andare in carcere. Chi lo conosce e lo ha visto sa perfettamente che Bianchini ha diversi problemi di salute, ma difficilmente potranno essere valutati incompatibili – almeno in un primo momento – con la detenzione. Forse anche per questo e dopo sette lunghissimi anni di misure cautelari, accuse, processi, ha pensato di farla finita.
È stato soccorso in extremis, i sanitari hanno disposto l’immediato trasferimento a Baggiovara dove è stato trattato e messo sotto osservazione. Le sue condizioni sono giudicate precarie ma sarebbe scongiurato il pericolo di vita e magari potrà tornare presto a casa per gli ultimi scampoli con la famiglia prima che la sentenza, emessa a Roma nel pomeriggio, diventi esecutiva. Un dramma quello di Augusto, imprenditore di successo fino all’indagine Aemilia che ne ha mostrato le fragilità. «Voleva arricchirsi», aveva detto la Procura generale nel chiedere di bocciare le istanze dei suoi avvocati. E per farlo, Bianchini, ha iniziato a fare affari e false fatture con Pino Giglio, intrattenendo rapporti con Michele Bolognino, due degli uomini di spicco della ’ndrangheta reggiana. Un piano che lo ha portato agli arresti di fine gennaio 2015 e a tutti i restanti guai giudiziari in cui sono rimasti marginalmente coinvolti anche la moglie Bruna Braga (condannata a 2 anni) e il figlio Alessandro (18 mesi con sospensione condizionale della pena e non menzione). Non sono bastate le strenue difese degli avvocati Garuti e Bonfante che a Roma si sono visti rigettare i ricorsi per Alessandro e Augusto (a testimonianza che avessero quantomeno toccato temi che meritavano un’analisi) e giudicare inammissibile quello per Bruna Braga.
«Si chiude una pagina molto dolorosa per la famiglia Bianchini – commentava il professore Garuti prima del drammatico epilogo della giornata – Siamo di fatto riusciti a togliere dal processo tutti i figli e la moglie, smontando le accuse iniziali e di questo siamo soddisfatti. Purtroppo non ci siamo riusciti con Augusto per il quale, pur ritenendo che abbia fatto degli errori, abbiamo maturato una convinzione che rimane ancora attuale nonostante i tre gradi di giudizio: qualcosa ha sbagliato nella sua vita imprenditoriale ma non è un mafioso, ne siamo certi. Le sentenze però si rispettano e questa non fa eccezione».
La Cassazione ha inoltre confermato anche le condanne per il ravarinese Vito Mancuso a 12 anni e 11 mesi (ricorso rigettato) e il maranellese Francesco Pelaggi che prende 5 anni a fronte del ricorso giudicato inammissibile.
Arrivano invece il pagamento delle spese di rappresentanza e difesa sostenute in Cassazione per le parti civili tra cui l’Unione Area Nord, i Comuni di Finale, San Felice e Concordia, la Regione, la Cgil e Libera contro le mafie.
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