Questo articolo è pubblicato sul numero 30-31 di Vanity Fair in edicola fino al 3 agosto 2021
Per almeno tre volte ribadisce di essere una persona «normale». Lo dice e lo ripete, ridendo tra i denti più che bianchissimi, fasciata in un maglioncino color lavanda che le evidenzia i deltoidi definiti. Normali sarebbero le sue attività mattutine prima dell’allenamento, i timori nei confronti della pandemia, il tran tran famigliare. Nonostante evidentemente tenga parecchio a sottolineare la sua estraneità all’eccezionalità, di normale Dina Asher-Smith ha davvero poco. A 25 anni ha collezionato un bronzo olimpico, due argenti e un oro mondiale correndo veloce come il vento. Letteralmente. Ai Mondiali di Doha, nel 2019, ha persino stabilito i due record nazionali per la Gran Bretagna nei 100 e nei 200 metri piani: 10,83 e 21,88 secondi, poco più dei 20 che impiega un neonato a passare dal buio alla luce ed emettere il primo vagito.
Tra un traguardo raggiunto e una medaglia conquistata, l’atleta inglese di origini caraibiche ha trovato il tempo di laurearsi con lode in Storia al King’s College di Londra, di collaborare con un brand dell’orologeria di lusso come Hublot, del quale è testimonial dal 2019, di far sentire la sua voce su temi sociali come l’emancipazione femminile o il contrasto al razzismo. E adesso, a un passo dalla partecipazione alle Olimpiadi di Tokyo, si è persino scavata un’oretta per raccontarci via Zoom che cosa si prova nei pochi giorni che precedono l’appuntamento della vita.
Oggi, più ansia o eccitazione?
«La seconda! Tutta la mia concentrazione sta nel mantenermi spensierata e allegra».
Come può essere spensierata sapendo che una nazione intera ha aspettative su di lei?
«Io non mi curo di quello che pensano gli altri. In questo periodo ho persino smesso di consultare i social media. Mi preoccupo solo di prefiggermi un mio obiettivo».
Vincere?
«Correre a una velocità incredibile».
Più veloce di quale avversaria?
«Di me stessa».
Ci sarà una rivale che le fa paura…
«In pista non ho paura di niente. Siamo lì per correre, non per salvare vite umane».
Nel quotidiano, invece, che cosa la spaventa?
«L’idea che i miei genitori possano ammalarsi. Soprattutto dopo i lunghi mesi di pandemia».
Che, tra le altre cose, ha rimandato l’appuntamento olimpico di un anno. Come l’ha trascorso?
«Ho sfruttato il tempo per perfezionare alcuni aspetti della mia routine: il sonno, l’alimentazione…».
In concreto?
«A letto, niente cellulare o Netflix, bassa temperatura e buio totale. A tavola, solo cibi salutari: tante proteine e broccoli a sfinimento! Inoltre, ho cominciato un percorso di psicoterapia: per la prima volta, forse a causa del Covid, ho avvertito l’esigenza di un confronto. In generale, ho lavorato per diventare la versione migliore di me stessa».
Ci è riuscita?
«Le rispondo tra una ventina di giorni».
Tra una ventina di anni, invece, dove si vede?
«A rincorrere i figli perché arrivino puntuali a scuola».
Lei lo era? Puntuale, intendo.
«Sempre. Però venivo anche rincorsa. Ero una bambina vivacissima, la tipica che finisce dentro le pozzanghere».
Magari i suoi genitori l’hanno iscritta ad atletica nella speranza che consumasse un po’ delle sue energie.
«Senza magari. Si auguravano che tornassi a casa sfinita».
Mamma Julie, manager aziendale, e papà Winston, ingegnere meccanico, sono più orgogliosi dei suoi successi sportivi o della sua laurea con lode?
«Di entrambi i traguardi. Loro sono i tipici genitori che fanno il tifo per te, a prescindere».
E lei di che cosa va più orgogliosa?
«Di essere diventata un modello per le nuove generazioni. Tante teenager mi dicono che, grazie al mio esempio, hanno trovato la forza per inseguire i propri sogni».
Una ragazzina, invece, un giorno le confessò che stava valutando l’idea di cominciare a correre per perdere peso.
«Le risposi che aveva molto di più su cui puntare oltre al suo aspetto esteriore. E che c’erano tante altre ragioni per iniziare uno sport: migliorarsi, divertirsi, conoscere nuovi amici. Tengo discorsi nelle scuole da quando ho 17 anni e purtroppo mi sono resa conto che le adolescenti sono sempre più preoccupate di dover corrispondere a un determinato canone estetico. Instagram con i filtri abbellenti in questo non aiuta. E nemmeno il mondo dei media».
Che cosa aiuterebbe?
«Cominciare a valorizzare le donne per i meriti e non solo per l’aspetto. Prendiamo l’ambito sportivo: non sempre la migliore in campo ottiene il meglio fuori dal campo, in termini di risonanza mediatica. Noi non viviamo per diventare famose. Ma, inutile negarlo, i riflettori servono».
A che cosa?
«I nostri guadagni derivano al 99 per cento dalle sponsorizzazioni. Grazie a cui paghiamo allenatori, fisioterapisti, manager. Un team più qualificato ti aiuta a perfezionare le performance. Sarebbe giusto che le atlete più talentuose ricevessero le attenzioni più cospicue. Non è sempre così».
Il suo contributo alla causa?
«Mantenere alto l’interesse sull’argomento. E proporre alcune colleghe al posto mio, quando mi chiamano per l’ennesimo servizio fotografico o intervista. Chiedo: so che vorreste lavorare con me e ve ne sono grata, ma che ne dite di lei? Io non ho bisogno di ulteriore risonanza».
Né di ulteriore sicurezza in se stessa, vedo.
«La mia autostima è il risultato di alcune circostanze fortunate. Da bambina mi ponevo obiettivi che mi parevano ambiziosi. In poco tempo li ho superati tutti, qualificazioni per le Olimpiadi incluse. Ho capito che, forse, credere in me stessa non era un’idea poi tanto sbagliata».
Si piace anche fisicamente?
«Fino a poco tempo fa non ho mai pensato a me in questi termini. Il mio corpo era uno strumento attraverso cui raggiungere degli obiettivi. Solo recentemente, avendo messo un piede fuori dall’ambito sportivo, grazie a collaborazioni con brand come Hublot, ho cominciato a capire che in altri ambienti venivo percepita in maniera diversa».
Intende non solo brava ma anche bella?
«Non sta a me dirlo. Posso confermare, però, che il gusto estetico della gente cambia a seconda dei contesti e persino della provenienza geografica: una donna nera come me verrà considerata diversamente in pista o su un set, in Gran Bretagna o in Africa».
E questo, in quanto donna nera, la disturba?
«No, sono ben altre le circostanze che mi turbano».
In un editoriale che ha scritto per il Telegraph dopo la morte di George Floyd ha raccontato un episodio particolarmente toccante: quando era appena una bambina, sua mamma le ha insegnato a non aprire mai la borsetta dentro un negozio. Pena, il rischio di venir accusata di furto.
«Me lo ripeteva a sfinimento. Ma ci ho messo un po’ a comprendere perché lei insistesse tanto e le mamme bianche no».
Quando l’ha capito?
«Avrò avuto dieci anni. Ero in un negozio e ho visto un uomo nero accerchiato da un gruppo di razzisti che lo insultava con brutte parole. Lui se ne stava lì, rannicchiato e spaventato. Intorno, una folla di spettatori immobili. Ci saranno state anche brave persone tra di loro, nessuno però ha detto una parola. Ero piccola, ma ho pensato due cose. La prima: di fronte alle ingiustizie non si può stare in silenzio».
La seconda?
«Per alcuni di noi, la vita è semplicemente più difficile».
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