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Fiorella Mannoia, Love Letter

Da vent’anni Stevan Martinovic lavora al fianco dell’artista romana. Con gli altri collaboratori, fa parte di una grande famiglia. Alla quale sono dedicate queste parole
Fiorella Mannoia, 60 anni e l'antologia "Fiorella"
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Questo articolo è stato pubblicato sul numero 27 di Vanity Fair, in edicola fino al 14 luglio. Il 50% degli incassi dalle vendite del giornale andrà all’impresa sociale Music Innovation Hub, per sostenere, in questo periodo di crisi globale, la lunga filiera di professionisti che rende possibile il miracolo che tutti noi chiamiamo musica.

Se la musica non si fosse fermata, io e Stevan probabilmente saremmo partiti ancora una volta assieme, il prossimo agosto, per un tour di dieci date all’aperto in altrettante città immerse nell’estate italiana. Sempre che qualche altro artista non m’avesse battuta sul tempo soffiandomelo per un po’, visto che nel nostro ambiente è uno dei professionisti più richiesti. Come fonico di palco – colui che, aiutandomi a sentire bene la voce e gli strumenti, mi permette di cantare bene – Stevan Martinovic lavora con me da vent’anni. Da quando ci siamo incontrati nel backstage del Pavarotti & Friends, anche se il nostro primissimo stringerci la mano ce lo siamo scambiato prima, nel dietro le quinte di un concerto di Enrico Ruggeri, che è un grande amico oltre che l’autore di una delle mie canzoni più amate: Quello che le donne non dicono.

Insieme a Stevan, mi sento parte di un gruppo di musicisti e tecnici che si considera una famiglia: una media di cento concerti all’anno, sempre insieme, durante i quali dividiamo l’emozione del palco, le cene, i viaggi, i contrattempi meravigliosi di una vita con la valigia. In armonia e senza l’ombra d’una tensione. Ora però siamo fermi, tutti quanti. Io e lui. Io e loro. Senza certezze su come e quando potremo riaccendere le luci, riattaccare le chitarre, scendere dal palco e farci abbracciare dal pubblico delle prime file, come amo fare alla fine di ogni concerto, per sentire e farmi sentire. E giuro che lo farei anche adesso, se solo si potesse, se solo l’emozione potesse finalmente tornare a scorrere.

Io ho trascorso la mia quarantena a Roma. Stevan, a Milano. Amico e professionista meticoloso, perfetto rappresentante di tutti i lavoratori dello spettacolo che in questo 2020 stanno pagando un prezzo altissimo: senza ingaggi, spesso senza tutele. E diciamocelo, un po’ dimenticati. Vanity Fair ci ha regalato l’occasione di risentirci in streaming su Skype dopo le lunghe settimane di lockdown, per tornare a parlare di noi, di paura del futuro, di risate stupende. «Fiore, ti ricordi quella volta in cui Robertina non ti ha agganciato il bodypack con il cavo delle cuffie e sei andata in scena lo stesso?», mi domanda Stevan. E chi se lo dimentica: io, che sul palco porto sempre i pantaloni, durante quella tournée avevo un cambio d’abito che prevedeva un vestito sopra il ginocchio, mentre cantavo Oh che sarà, appoggiata al pianoforte. Stevan e gli altri assistenti di palco, che s’erano accorti subito della situazione, avevano iniziato a sbracciarsi, mentre io andavo avanti a cantare imperterrita, senza alcun ritorno audio dalle cuffie nelle orecchie e col solo eco del suono del piano. Un putiferio, con tutti i tecnici in soccorso e Robertina, che è assistente ai camerini e lavora con me da una vita, che disperatamente, mentre io continuavo a cantare, tentava di rimediare cercando di riagganciarmi in qualche modo quel cavetto, anche se, con il vestito che si alzava oltre il «lecito», non è stato semplice. È stata una scena comica, che ha fatto molto ridere anche il pubblico, mentre intonavo le note di Chico Buarque de Hollanda…

«Fiorella, e la volta invece in cui abbiamo suonato a Lampedusa per O’ Scià, il festival di Baglioni? C’era stato mare grosso e il camion coi nostri strumenti non è arrivato sull’isola, comprese le percussioni dei musicisti africani. Ci siamo fatti prestare i bassi elettrici e le chitarre, e abbiamo riempito di sassolini le lattine di Coca-Cola per realizzare le parti ritmiche: un concerto stupendo…».

Che malinconia, Stevan. E che brutto vedere sui siti di tutti i nostri colleghi la stessa identica frase: NON CI SONO DATE DISPONIBILI. L’ultima volta, per me, è stato lo scorso 28 dicembre all’Auditorium Parco della Musica di Roma. «Per me», mi ricorda Stevan, «è stato a febbraio, per le prove musicali del concerto di Salmo a San Siro, che ovviamente è stato cancellato. E poi ci sarebbe stata una tournée europea con Ligabue e le serate di Tiziano Ferro. E invece nulla: NON CI SONO DATE DISPONIBILI».

E questo ci dà una vertigine, un senso d’incertezza, il tormento del non sapere. Per tutti i tecnici, i musicisti, gli assistenti di palco, gli attrezzisti, gli stage designer, i tecnici luci, i promoter, gli autisti e per chi non è assunto da un grande service ma magari lavora per le cooperative, economicamente è una botta tremenda. E io mi sento responsabile e impotente, proprio come accade in queste settimane a molti imprenditori: intorno a me lavorano almeno trenta persone, che significano trenta famiglie, trenta mutui, figli piccoli o genitori anziani, e l’angoscia sta aumentando.

Vorrei poi uscire dalla retorica di doverci scusare di voler lavorare, attanagliati dal senso di colpa per essere più fortunati. Ci siamo tutti giustificati dicendo «non lo diciamo per noi artisti, ma per i lavoratori», anche basta! Sgomberiamo il campo da questa ipocrisia, IO VOGLIO LAVORARE! Perché se lavoro io a cascata lavorano tutti quelli che fanno parte di questa «azienda» che dà lavoro a decine di famiglie, paga le tasse e contribuisce a formare quel 16% di Pil che manda avanti il Paese. IO VOGLIO LAVORARE! Per me, per voi, per noi.

Avremmo potuto approfittare dell’estate per sperimentare soluzioni, forme di spettacolo sicure, e invece stiamo perdendo giorni preziosi. E intanto vedo certi politici scattarsi i selfie durante le manifestazioni, appiccicati l’uno all’altro. E anche negli aerei ormai è permesso viaggiare senza rispettare le distanze di sicurezza, seppur in spazi molto ridotti. E a noi, anche in location all’aperto molto più grandi, hanno ridotto a massimo mille il numero di persone che possono partecipare, anche a distanza di sicurezza di un metro, e, in sostanza, non ci permettono di lavorare: questo mi fa arrabbiare.«E poi Fiore c’è una cosa che forse le persone non sanno: gli operatori della musica dal vivo, per lo Stato, non risultano inquadrati in categorie professionali specifiche. Ecco perché molti di noi si stanno riunendo e sono nate realtà come Squadra Live che provano a “censire” il settore: in questo silenzio, abbiamo scelto di farci sentire». Sì Stevan, è proprio così, dobbiamo farci sentire.

E io ho una voglia pazza di ripetere il mio piccolo rito scaramantico, quella goccia di profumo che mi concedo sul collo prima di salire sul palco, uno spazio che per me, e per tutti noi, resta un luogo sacro.

Male che vada cambiamo mestiere, che ne pensi? Io mi metto a fare le fotografa: ultimamente mi sono appassionata tanto che avrebbe dovuto esserci una mostra di miei scatti realizzati per AMREF, anche questa purtroppo saltata. Mentre mi dicono che tu sei un fantastico falegname, come il nostro batterista Diego Corradin, e ti sei appena comprato una levigatrice orbitale: perché non vieni a trovarmi a Roma che mi serve una libreria nuova? Tanto tu, come tutti quanti, ormai lavori per hobby. Non è vero, amico mio?

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