È una scrittura intima, misteriosa, capace di catturare i sommovimenti dell’anima prima ancora che diventino pensieri compiuti o gesti che danno forma e sostanza alla nostra vita: è la scrittura diaristica di Sándor Márai, giornalista e scrittore ungherese naturalizzato statunitense, nella sua seconda prova letteraria, “Bébi, il primo amore”, realizzata ad appena 28 anni nel 1928, ora pubblicata nella traduzione di Laura Sgarioto da Adelphi (pagg. 260, euro 19), casa editrice che ha riscoperto questo grandissimo autore per troppo tempo rimasto sconosciuto fuori dal suo paese.
Scritto in prima persona, questo romanzo è il diario di un abisso che non lascia scampo; un’opera che nella sua scrittura, seduttiva e affilata, lascia dentro il lettore ad ogni pagina un piccolo taglio invisibile, che diventa inesorabilmente, riga dopo riga, incisione profonda, ferita aperta, impossibile da rimarginare.
È come se la scrittura di Márai, che nel suo scandirsi diaristico ci rassicura, aprisse di colpo le ali sull’abisso, a cui tutti gli esseri umani sono condannati. Perché la ferita che lacera l’anima del protagonista di questo romanzo - un professore di latino poco più che cinquantenne, celibe, alieno da qualsiasi sentimento verso i propri simili, visti come corpi estranei per cui provare, al massimo, fastidio, maniacalmente attaccato a una routine fatta di lezioni, passeggiate, serate al circolo e poco altro - è la voragine che inghiotte senza pietà l’uomo del ‘900 con tutte le sue inutili certezze, alle quali cerca, grottescamente, di rimanere attaccato.
Come il realismo magico di Kafka, che non a caso Márai fu il primo a leggere e a recensire positivamente dopo la sua morte, anche il realismo dello scrittore ungherese spacca la realtà, ma lo fa dal di dentro: la fa esplodere per progressivo nonsense, stretta in una morsa inarrestabile tra la nostalgia di un tempo perduto che non potrà più tornare e qualcosa che non potrà mai venire.
Apatia e incapacità di porre rimedio al nulla di una società che ci lascia soli, nudi, senza più maschere, di fronte ai nostri mostri, alla consapevolezza che “siamo tutti dei tristi ronzini” chiusi in una “solitudine colpevole”, che ci tiene costantemente sul bordo di un abisso, mentre crediamo ancora di vivere la nostra comoda vita piccolo borghese: questo il magma esplosivo che il protagonista di questo diario scopre dentro di sé.
Il potere della scrittura di Márai è grande, capace ancora oggi, dopo quasi 100 anni, di far camminare il lettore sul bordo di quell’abisso che i grandi scrittori del ‘900 avevano prefigurato e saputo raccontare. Nella cristallina capacità di inchiodare la realtà al muro, di farla esplodere, facendoci intravedere – ancor prima che tutto accada, che tutto giunga all’epilogo – l’osso sotto la pelle, il dolore dentro l’anima, la decomposizione di ogni certezza, il naufragio dell’esistenza, ecco il nodo che tutto fa deflagrare: il contatto inaspettato con la vita vera.
Quella vita che il protagonista per caso annusa, scoppiando in lacrime, quando con grottesca emozione vede al circolo un manifesto del Brasile, sentendo nell’inchiostro fresco di stampa il profumo del mare che non aveva mai visto. Così, parimenti, davanti all’amore, unica via di scampo di fronte al nulla dell’esistenza, allo schiudersi di un sentimento al primo nascere, neppure vissuto in prima persona, ma intravisto, spiato e ferocemente invidiato nella storia di due suoi allievi poco più che adolescenti, il protagonista e il suo mondo, al pari di un vetro già incrinato, vanno in frantumi.
Come nei versi T.S.Eliot in “The Love Song of J. Alfred Prufrock” «Ci siamo troppo attardati… Finché le voci umane ci svegliano, e anneghiamo», così il protagonista del romanzo di Sándor Márai, in una esistenza dove nulla era mai accaduto, dal profumo della vita viene travolto: «Mi trovavo davanti a una forza sconosciuta, perturbatrice, che agiva nella mia vita e alla quale non potevo opporre resistenza. Per molto tempo non si ha idea di cosa si tratti. Di solito si dice che è l’inizio della vecchiaia. Ma non era la conseguenza di qualcosa. Non ero malato, non conducevo una vita sregolata; il giorno prima non avevo niente, e adesso mi svegliavo mezz’ora più tardi e dimenticavo a casa il libretto. Che cosa mi era successo? Quando era successo? (…) È qualcosa di inafferrabile. Ho dovuto cedere».
