TREVISO. Riccardo Pittis, dopo una vita in pantaloncini corti ora ha la giacca e la camicia. Da campione di pallacanestro a mental coach. Com’è la nuova carriera?
«Il 99 per cento della mole di lavoro è con aziende, manager, imprenditori, professionisti collegati al mondo del lavoro. Ho avuto anche degli sportivi, ma in numero molto più ridotto rispetto a quanto si possa immaginare».
Ma qual è il modus operandi principale di un mental coach?
«Si può fare coaching in due modi: lo one to one e il team coaching o group coaching».
Ora tocca spiegare le differenze, in primis con questi ultimi.
«I team coaching riguardano persone che lavorano nello stesso ambito, devono avere rapporto di gioco di squadra, mentre nel group coaching non necessariamente lavorano assieme, ma fanno parte della stessa azienda e quindi hanno obiettivi comuni».
Per lo one-to-one, che immagino implichi un rapporto più stretto, il rischio è di affidarsi a chi mental coach non è.
«Sì, non si può sbagliare. L’errore comune è affidarsi ai non professionisti, a chi non ha competenza. Per diventare mental coach non mi sono svegliato la mattina inventandomi il ruolo, ho studiato e sto ancora studiando, ho imparato e imparo, raggiungo obiettivi e me ne prefiguro di nuovi»
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Ma le differenze da un punto di vista pratico quali sono?
«Lavori sulle dinamiche. Con il gruppo fai un lavoro più generalizzato, non può fare per 10-15 persone 15 abiti diversi, deve andare bene per tutti. Si punta su dinamiche che sono tipiche dei team, la collaborazione, la fiducia, la comunicazione. Per il singolo vai col vestito su misura, partendo dalle specifiche della persona, dalle sue caratteristiche e poi si lavora su quelle che sono i desideri del “coachee”, il cliente».
Come funziona?
«C’è prima un incontro zero, ci si conosce, si crea rapporto fiduciario, si cerca di capire se siamo fatti l’uno per l’altro, vedere se pensiamo di poter lavorare insieme. Si stabiliscono aspetti su cui bisogna lavorare, gli obiettivi del percorso che sceglie il “coachee”, e si sceglie un percorso di sessioni e da lì si comincia».
Chiariamo: non è come andare dallo psicologo.
«La terapia, la psicanalisi è un’altra cosa, inavvicinabile. In primis non sono uno psicologo, le competenze sono altre. Lo psicologo va a lavorare su vari aspetti, dal passato al presente ed eventualmente al futuro, un coach si concentra sul presente per costruire un futuro, il passato non mi interessa. Capire quali sono le necessità del coachee e accompagnarlo nei suoi stati desiderati, verso i suoi obiettivi. Ma se mi dovesse dire “ho un problema irrisolto con mio padre”, lo fermo, quella è tutt’altra esperienza».
Il Covid ha cambiato il suo modo di lavorare?
«Beh, quello che facevo in presenza lo sto facendo da remoto. Non c’è contatto umano ma rapporto telematico. Ha avuto un impatto sulla mole di lavoro. L’anno scorso è stato improvviso, in marzo e aprile c’era terrore, poi c’è stata la ripresa e l’anno è finito abbastanza bene. Ma nel 2021 com’era prevedibile si risente molto dell’onda lunga. I budget delle aziende erano di un certo tipo nel 2020, ma nel 2021 hanno previsto il Covid. Quindi tutto al ribasso, comprendendo la formazione».
È pro vaccino?
«Favorevolissimo, lo farei subito. E pensa che fino all’anno scorso non avevo mai fatto un vaccino antinfluenzale. Ma qua c’è il rischio di morire, è drammatico che ci sia chi non vuole farlo».
La motivazione è tutto?
«Alla fine del 2020 le richieste erano principalmente sull’aspetto motivazionale. Le aziende avevano grosso problema di stimoli. Era logico visto ciò che ci era successo, che ci fosse stato contraccolpo, rispetto a degli argomenti o richieste sulla collaborazione, sul comunicare meglio».
Sarà il tema cardine per il mondo del lavoro?
«Il tema del cambiamento è all’ordine del giorno. Sarà epocale e drastico, per abitudini personali e professionali».
Quanto c’è del basket nel suo lavoro?
«Mi porto dietro tutto, è il motivo per cui faccio il mental coach. Ho voluto decriptare la mia carriera sportiva, capire perchè avevo compiuto un percorso di un certo tipo. Capire quali dinamiche mi avevano ostacolato a diventare più bravo o degli episodi più impattanti. Come quando sono diventato mancino dopo il problema alla mano destra. Non pensavo fosse possibile o immaginabile, invece ce l’ho fatta. È stato merito della mente. Ho iniziato a studiare proprio da lì».
Sarebbe stato utile avere un supporto di questo tipo quand’era giocatore?
«Col senno di poi da quando faccio il mental coach mi dico che se avessi avuto le stesse competenze sarei stato un giocatore migliore. Perchè gli ostacoli spesso ce li mettiamo da soli. Ora che so come fare per liberarmene sarei riuscito a evitare situazioni o carenze».
La gestione del gruppo è stata decisiva nei suoi anni alla Benetton?
«Riconosco bravura nell’ambito della gestione, grandi maestri come Meneghin o D’Antoni facevano trasparire come si interagisce bene in spogliatoio. Poi si sa che non si vincerà mai da soli, e un me stesso migliore magari non avrebbe deciso sulle vittorie. Potevo far meglio? Non c’è rammarico, nessun rimpianto, è solo una considerazione. Credo si possa sempre migliorare».
Ma il basket di certo non può dimenticarlo. Quindi vediamo se è anche indovino: chi vince scudetto, Eurolega e Nba?
«In Italia Milano, in Europa il Barcellona, non seguo molto il basket Usa ma dico Brooklyn, lì c’è D’Antoni, ho sempre tifato per lui». —
