Il Sant’Ambroeus della Scala è l’unica occasione in cui l’opera lirica finisce in prima pagina sui quotidiani e in prima serata su Rai1, dove ha fatto un confortante 10,2 per cento di share con un milione e 603 mila spettatori (poi si può discutere se grazie o nonostante la coppia di fatto Carlucci-Vespa). Si riapre quindi la discussione infinita su quest’arte arcitaliana e sul suo futuro, concesso e non dato che ne abbia davvero uno.
È chiaro che non si tratta più dello spettacolo nazionalpopolare italiano per eccellenza, come teorizzava Gramsci. Gli happy few dell’altra sera alla Scala replicavano maldestramente un rito di cui sfuggono loro le ragioni. Se una televisione all news e un quotidiano ex prestigioso hanno definito Anna Netrebko, rispettivamente, “tenoressa” e “tenore”, mentre si tratta di un soprano (e “un” soprano, non “una” soprano), è chiaro che il pesce comincia a puzzare dalla testa, cioè dalle fu élite ormai culturalmente allo sbando, e figuriamoci chi élite non è e crede davvero che l’opera sia Bocelli che canta “Vincerò!”.
Di solito, i superstiti melomani tradizionali, barilliani, più minacciati d’estinzione dei panda, replicano che la colpa è della scuola, che l’opera non la insegna. In effetti, è abbastanza scandaloso che per dimostrarsi maturo un diciottenne italiano debba (in teoria) sapere tutto della guerra del Peloponneso ma possa bellamente ignorare l’esistenza di Rossini e Verdi. Qui pesa anche un vecchio conto in sospeso della cultura italiana con il melodramma, per cui da ministro della Pubblica istruzione Francesco de Sanctis, dicesi de Sanctis, non Valditara, toglieva dai programmi la musica perché la scuola doveva formare dei “valentuomini, non dei buffoni”. Quindi il problema esiste.
Eppure si può facilmente replicare che, quando Verdi era patrimonio comune, anche dei più umili e degli analfabeti veri, a scuola nessuno lo insegnava; anzi, molti di quelli che sapevano a memoria i libretti, e magari senza conoscere il significato delle parole, a scuola non ci erano proprio mai andati. Il punto non è istituire l’ora di opera lirica. È come fare l’opera, che in Italia si fa male. È considerata un reperto museale, da estrarre dalla teca ed esibire periodicamente ai fedeli, replicandola all’infinito con le stesse modalità di produzione e di fruizione. La mummia del melodramma come eterno ritorno del sempre uguale, rito ancestrale sottratto, si direbbe, allo scorrere del tempo e alle contingenze della storia, quindi tradizionale, aproblematico, consolatorio.
Ma i classici sono tali, appunto, perché ogni tempo li legge in maniera differente, cercando in quel passato il suo presente. Monteverdi o Puccini sono nostri contemporanei, da usare come chiave interpretativa del nostro mondo: e destabilizzante, non rassicurante. Dunque, occorre un teatro che investa, in primis, sugli autori di oggi; e poi rilegga quelli di ieri in maniera coraggiosa, innovativa, perfino provocatoria. Cambiando anche il rapporto con il pubblico, che oggi bisogna andare a cercare invece di aspettare che venga, usando le novità tecnologiche e, in generale, iniziando a pensare che fuori da quelle necropoli d’oro e di velluto che sono oggi i teatri d’opera italiani c’è un mondo e che questo mondo è un’opportunità, non una minaccia. Altrimenti fra non troppi anni l’unico uso possibile per la Scala sarà un parcheggio, e a molti non dispiacerebbe nemmeno.