Il successo di Donald Trump in America sembra avvicinare una tregua in Ucraina. Non so se il nuovo presidente degli Stati Uniti terrà fede alle promesse che gli sono state attribuite in campagna elettorale («Se verrò eletto fermerò la guerra in ventiquattr’ore»), ma è certo che la fine del conflitto ai margini dell’Europa è una delle priorità del nuovo inquilino della Casa Bianca, non fosse altro perché la resistenza di Kiev all’invasione russa è finora costata agli Stati Uniti una sessantina di miliardi di dollari. Dunque, in molti si attendono che il 47esimo presidente americano chiuda i rubinetti, imponendo se non una pace, perlomeno un cessate il fuoco.
La prospettiva, tuttavia, allarma chi intravede nell’armistizio una resa davanti all’aggressore, ossia la perdita dei territori occupati dai russi, con una sorta di congelamento dei due fronti, senza una riconquista e una cacciata dell’invasore. «Stiamo abbandonando l’Ucraina?» si è chiesto la scorsa settimana il Corriere della Sera. In un articolo a firma dell’ex direttore di Repubblica Carlo Verdelli, il quotidiano di via Solferino sintetizzava lo scenario venutosi a creare con le elezioni americane come un voltafaccia dell’Occidente.
Dopo aver illuso gli ucraini di un sostegno senza se e senza ma, all’improvviso il cosiddetto mondo delle democrazie apparirebbe stanco, pronto a mollare Volodymyr Zelensky e il suo popolo al loro destino. «Una delle soluzioni che si va delineando, complice un costante avanzamento delle truppe d’invasione» ha scritto Verdelli, «prevederebbe la sostanziale vittoria dell’aggressore e l’umiliazione più o meno mascherata dell’aggredito, con la Russia che si annetterebbe il 20 per cento del territorio ucraino conquistato, in spregio al diritto internazionale, e con Zelensky, o chi per lui, che si impegnerebbe a ritirare la richiesta di adesione alla Nato». Per l’editorialista del Corriere, tutto ciò rappresenterebbe non solo la fine della libertà e dell’indipendenza di Kiev, ma anche la conclusione di quell’ordine mondiale scaturito in anni di sostanziale pace. E soprattutto, certificherebbe la debolezza delle diplomazie e delle democrazie occidentali, spazzando via la retorica che ci ha accompagnato dal 24 febbraio 2022, quando le truppe di Vladimir Putin varcarono baldanzose il confine con l’Ucraina. Nei giorni a seguire non c’è stato capo di governo che non abbia giurato eterno sostegno a Kiev, promettendo aiuti senza limiti, pronti anche al sacrificio di qualche grado in meno dentro la casa pur di tagliare gli introiti petroliferi con cui Mosca alimentava la sua macchina da guerra.
Tuttavia, a quasi tre anni dall’inizio del conflitto, tutte le certezze con cui l’Occidente prediceva il crollo della Russia sono state spazzate via e oggi siamo di fronte a un’amara realtà. Condivido quasi tutte le riflessioni del collega del Corriere della Sera, quando dice che stiamo tradendo gli ucraini e pure che la stiamo dando vinta all’aggressore a spese dell’aggredito. È vero che questo rappresenta una sconfitta delle democrazie occidentali e pure la fine di un equilibrio scaturito dopo la Seconda guerra mondiale (ma forse sarebbe meglio collocarlo dopo il crollo dell’Unione sovietica). Tuttavia, l’alternativa a tutto ciò qual è? Continuare una guerra che secondo il New York Times ha già causato un milione di vittime e che promette di provocarne altre senza lasciare neanche intravedere una vittoria dell’Ucraina? La realtà con cui noi siamo chiamati a fare i conti sta in un inciso dell’editoriale di Verdelli, là dove dice che la soluzione della tregua che si va delineando è dettata «dal costante avanzamento delle truppe d’invasione».
Non passa giorno senza che dal fronte arrivino pessime notizie per l’Ucraina. Le truppe di Putin procedono nel centro del Donbass, ma pure a sud e anche a nord. Nel Kursk, regione russa che Kiev ha invaso l’estate scorsa sperando poi di barattare le aree occupate con qualche territorio ucraino, i soldati di Zelensky sono circondati e hanno di fronte 50 mila militari, doppio o forse il triplo dei loro effettivi. È l’andamento della guerra che impone l’urgenza di una tregua. Si fosse provato a raggiungere un accordo due anni fa, probabilmente oggi l’umiliazione dell’aggredito sarebbe stata meno cocente. Ma se all’armistizio si giungesse fra un anno, forse sarebbe peggio e gli aggrediti sarebbero costretti a cedere agli aggressori altri pezzi di Paese.
Purtroppo, le guerre non sono un film di Hollywood, dove quasi sempre vincono i buoni o coloro che si ritengono tali. I conflitti, quelli veri, che non si svolgono sul set, si chiudono spesso nel peggiore dei modi e purtroppo credo che quello in Ucraina sia tra questi. Non si tratta di abbandonare Kiev, come si chiedeva Verdelli, si tratta di abbandonare l’ipocrisia e la retorica. E soprattutto l’idea che la storia si concluda sempre nel migliore dei modi.