Un “reato particolarmente grave e offensivo” per gli effetti che provoca “sulla funzione giurisdizionale”, producendo l’effetto di “svendere la giustizia“. Così, durante le conclusioni del processo Ruby ter in corso a Milano, l’avvocatessa dello Stato Gabriella Vanadia definiva la corruzione in atti giudiziari, il reato di cui Silvio Berlusconi è accusato per aver comprato le false testimonianze degli ospiti delle cene di Arcore. E chiedeva ai giudici della Settima sezione penale di condannare il fondatore di Forza Italia (e gli altri 27 imputati) a risarcire la Presidenza del Consiglio, disponendo una “provvisionale da dieci milioni di euro per la corruzione in atti giudiziari e di 500mila euro per le false testimonianze”. Un’arringa che ora il governo Meloni ha scelto di rendere inutile: il 13 febbraio palazzo Chigi ha revocato la costituzione di parte civile nel processo contro l’ex premier, avanzata nel 2017 dal governo Gentiloni per il “discredito planetario” che la vicenda Ruby e i suoi annessi avevano gettato sulle istituzioni italiane. Una mossa arrivata in extremis, appena due giorni prima della sentenza di primo grado e poche ore dopo che Berlusconi aveva (di nuovo) messo in imbarazzo la maggioranza con un attacco pubblico al presidente ucraino Volodymyr Zelensky, costringendo Meloni e i suoi ministri a rassicurare gli alleati occidentali.
Eppure l’avvocatessa Vanadia, una dipendente pubblica, aveva seguito il processo per cinque anni rappresentando gli interessi dello Stato e associandosi alle posizioni dei pm Tiziana Siciliano e Luca Gaglio, che hanno chiesto di condannare Berlusconi a sei anni di carcere: nelle conclusioni aveva detto di condividere “in tutti gli aspetti” la ricostruzione dell’accusa, contestando inoltre l’interpretazione fornita della difesa del Cavaliere sul reato di corruzione in atti giudiziari. Secondo l’avvocato Franco Coppi, quella fattispecie non poteva più essere contestata all’ex premier dopo che i verbali di quasi tutte le Olgettine erano stati dichiarati inutilizzabili in quanto – per il Tribunale – andavano già considerate indagate dal marzo 2012, e perciò sentite in aula con la garanzia dei testimoni assistiti da avvocati. Per Coppi, in sostanza, non essendo valida la deposizione non esiste più nemmeno il reato. L’avvocatessa dello Stato, invece, sosteneva insieme all’accusa una tesi opposta: quello che va “punito e sanzionato”, ha detto in aula, “è semplicemente l’accordo per sviare la giustizia e svenderla, basta questo perchè si configuri reato”. La corruzione in atti giudiziari, concludeva quindi, “si può certamente applicare in questo caso”, perché a essere punito è “l’accordo corruttivo”. Uno sforzo mandato in fumo con un tratto di penna.
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