Cè chi ha fatto il tampone a casa ed era negativo, ma con il molecolare ha scoperto di essersi ammalato. C’è chi, invece, ha eseguito un tampone negativo in farmacia poi, chiamato dalla Asl e ormai certo di aver terminato l’isolamento, è stato dichiarato ancora positivo. C’è anche chi, in una famiglia di positivi, visibilmente stremato da tutti i sintomi, non viene rilevato come infetto dal test rapido e così è costretto a richiedere un permesso per non andare a lavoro.
Sono solo alcuni esempi che oggi scandiscono la vita di milioni di italiani. Ma si potrebbe continuare a lungo. Perché variegata è la casistica che assedia il nostro Paese, stretto nella morsa della pandemia e sempre più disorientato nel limbo dei tamponi.
«Mettere ordine nel caos informativo attuale non è semplice» esordisce Vincenzo D’Anna, presidente dell’Ordine nazionale dei biologi. «Bisogna partire dal presupposto che oggi lo strumento diagnostico più affidabile è il tampone molecolare naso-orofaringeo, che consiste in un’indagine capace di rilevare il genoma (Rna) del virus. Si tratta di test con un altissimo grado di sensibilità e specificità. Questo vuol dire che ha un’elevata capacità di identificare gli individui positivi o meno al virus». L’esame può essere effettuato solo in laboratori altamente specializzati e individuati dalle autorità sanitarie, e consiste nel prelievo con un lungo bastoncino di un campione delle vie respiratorie del paziente, poi analizzato attraverso metodi molecolari molto accurati (Rt-Pcr) che amplificano i geni del virus.
In questo modo si ricava la presenza del materiale genetico del virus nell’organismo del paziente con margini minimi di errore (si parla dello 0,01 per cento). Per avere il risultato bisogna aspettare dalle due alle sei ore - a causa della massiccia richiesta, però, gli standard variano oggi dalle 24 alle 72 ore.
Decisamente diverso - anche per i tempi di attesa, che si attestano sui 15 minuti - e molto meno affidabile risulta quello rapido, praticato in farmacia o disponibile nei kit fai-da-te (fallisce nel 30 per cento dei casi). Il test esamina solo la proteina spike del coronavirus e, come denuncia il Comitato di sicurezza pubblica dell’Unione europea (così come la Fda americana), risulta del tutto inadeguato in rapporto alla variante Omicron che, molto spesso, con le sue oltre 30 mutazioni, gli sfugge.
Unanimemente considerato dagli esperti inadatto, è oggi però il più frequente per il costo - 15 euro contro i circa 60 del molecolare -, i tempi più snelli e soprattutto la facilità di esecuzione: basta inserire il tampone nelle cavità naso-faringee, dentro il reagente, e versare il liquido nella cassetta per avere il risultato.
«Continuiamo pure a fare i tamponi rapidi, ma cerchiamo di renderci conto che, se continuiamo a utilizzarli come lasciapassare sociale, non facciamo altro che diffondere il virus» sostiene Andrea Crisanti, ordinario di Microbiologia all’Università di Padova, ritenuto una delle voci-guida nella pandemia. «Gli unici affidabili, per decretare la positività o meno, sono quelli molecolari che possono permettere di avere un’analisi accurata. Affidarsi a queste soluzioni fai-da-te non fa altro che peggiorare le cose, mostrando come la situazione attuale sia totalmente confusa. Siamo allo sbaraglio».
Un po’ come sta accadendo in Toscana, dove la sanità appare realmente nel caos. A ridosso di Capodanno, con un’ordinanza straordinaria, il presidente Giani ha delegato tutta la gestione pandemica alle farmacie: sono loro a dover eseguire (a spese del paziente) il tampone rapido, a doverlo caricare sulla claudicante piattaforma regionale e dunque a decretare la negativizzazione (sempre a fronte del pagamento di 15 euro del cliente). I test molecolari, dunque, nella regione non sono più contemplati poiché il sistema è al collasso. Tutti, a cominciare dalle Asl e dai medici di famiglia, sembrano aver alzato le mani inducendo la Regione a emettere un nuovo provvedimento urgente secondo cui per uscire dall’isolamento non è più neanche necessario il referto del medico. «In questo modo tutto si basa su una vera roulette» constata Crisanti.
Il problema però non sarebbe l’uso dei tamponi rapidi - la cui nascita è legata a operazioni di screening per esami condotti a tappeto sulla popolazione - bensì il ruolo discriminante che è stato loro affidato, sopravvalutandone le capacità. «I tamponi rapidi possono dare risposte scorrette in molteplici casi. Potrebbero per esempio, se effettuati troppo a ridosso del contagio, non riuscire a rilevare la presenza del virus. Ma anche, soprattutto nel caso di asintomatici, non riuscire a rivelare tracce virali» puntualizza D’Anna.
A questo proposito, bisogna ricordare che la carica virale, secondo gli studi più avanzati, si registra tra le 48 e le 72 ore successive all’inizio dell’infezione, e dunque è ampiamente consigliato sottoporsi a test antigenico dai tre ai quattro giorni successivi al contatto. Pratica che, spesso, non viene seguita alla popolazione, vuoi per impazienza vuoi perché a digiuno di notizie chiare e univoche. «I test rapidi riescono poi a rilevare una carica virale più alta di quella che serve ai test molecolari. In questo modo non sono solo rischiosi per tracciare l’inizio dell’infezione, ma anche per decretarne la fine» aggiunge D’Anna.
Ecco spiegato il caso di Silvio T., milanese 54enne: «Ho fatto tre dosi di vaccino. Quando, il 24 dicembre, ho eseguito il tampone il in farmacia, sono risultato negativo. Il giorno dopo, su indicazione della Usl, ne ho fatto uno molecolare e mi sono scoperto positivo. Da allora ho fatto altri sei test. Quelli in farmacia sono risultati tutti negativi, mentre i due molecolari positivi. A oggi ho speso 200 euro. Ma se mi fossi affidato a quello rapido sarei tornato in circolazione dopo appena sette giorni». A discapito della collettività.
